Il 10 Dicembre 2012, ormai otto anni fa, l’Unione Europea venne insignita dell’ambito Premio Nobel per la Pace. Forse, quell’anno, i giurati non sapevano a chi rivolgersi, come cavarsela con questo Premio che, bene o male, a qualcuno doveva pur esser assegnato. Del resto, la storia c’ha insegnato come non siano nemmeno stati pochi i casi in cui tale Premio, più simbolico e politico che altro, sia stato attribuito a personalità che non sempre se lo meritavano per davvero; o che, perlomeno, non avevano proprio meriti incontestabili sul fronte della salvaguardia o dell’ottenimento della Pace.
Fu dato, per esempio, a Mikhail Gorbaciov, ufficialmente per aver posto fine alla Guerra Fredda e allo scontro fra i due blocchi, ma in realtà per averne demolito uno, il suo, smantellando il Patto di Varsavia e l’URSS, il paese che guidava, insieme al sistema politico ed economico che proprio nell’URSS trovava le proprie fondamenta. Come sappiamo, l’eredità di quegli smantellamenti a firma gorbacioviana s’è qualificata fin da subito proprio in una lunga sequela di guerre civili e di conflitti regionali, dall’Afghanistan al Caucaso, dalla Jugoslavia all’Africa, e non pochi di questi conflitti perdurano ancor oggi; d’altronde, anche la Guerra del Golfo, dapprima con l’invasione irachena del Kuwait e poi con l’assalto della coalizione a guida americana ai danni dell’Iraq, avvenuta proprio poco prima che Gorbaciov ottenesse l’ambito Premio mentre il suo paese e l’ex campo socialista collassavano su sé stessi, non andrebbe a sua volta dimenticata.
Ci ricordiamo, essendo un fatto più fresco, il Nobel per la Pace a Barack Obama, anche quella un’assegnazione su basi emotive ma pure politiche. Emotive, perché bene o male in quel momento il giovane Obama, fresco d’elezione, letteralmente non ancora insediatosi alla Casa Bianca, appariva come l’uomo nuovo che poneva fine agli otto anni di George W. Bush jr. “il guerrafondaio”, presentandosi con grandi promesse poi in realtà non mantenute come la fine della presenza militare statunitense in Afghanistan ed Iraq, oltre a quella di voler stabilire nuovi rapporti, più paritetici e rispettosi, con gli altri paesi del mondo. Era visto, insomma, come una “colomba”, un “uomo di pace”, anche se poi così non fu: ma proprio per questo, se vi fosse stata meno emotività, non si sarebbe deciso d’assegnare il Nobel per la Pace così “sulla fiducia”. Ma le basi erano anche politiche perché, esattamente come nel caso di Gorbaciov, quel Nobel voleva essere anche una sorta di “marchetta” e di “premio politico” a favore di un leader che si presentava strategico per la salvaguardia della storica preminenza dell’Occidente e dei suoi interessi nel resto del mondo e negli equilibri internazionali in generale.
Certo, il Nobel per la Pace è stato dato anche ad altre grandi personalità, ben più che meritevoli di riceverlo, mentre altre ancora neanche sono mai state prese in considerazione sebbene ugualmente se lo meritassero, ma… il fatto che nessuno si ricordi dei loro nomi dovrebbe già di per sé costituire una risposta più che sufficiente a farci capire come funzionino certe cose: le varie e i vari Rigoberta Menchù, Abiy Ahmed, Muhammad Yunus, ecc, tirate/i fuori di tanto in tanto, sono soltanto “alibi” che servono a salvare la faccia di un Premio che in realtà non viene mai assegnato per effettivi meriti ma solo per più mere ragioni politiche. Che cosa dovremmo dire, altrimenti, del Nobel per la Pace al Dalai Lama, al Presidente colombiano Juan Manuel Santos, ad Al Gore, o a Liu Xiaobo? Più premi politici ed interessati di questi…
E poi, fra le varie entità ed organizzazioni che l’hanno ricevuto, figura anche l’Unione Europea. A ritirarlo, quel giorno ad Oslo, c’erano il Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il Presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e il Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy. Ora, siamo davvero sicuri che tale soggetto politico ne sia davvero meritevole? Quando, nel 1957, con gli Accordi di Roma nacque la Comunità Economica Europea (CEE), antenata dell’odierna UE, le prospettive sembravano ben altre e ben diverse, seppur nel solo ambito di neanche tutti i paesi della sola Europa occidentale: non vi erano ancora compresi, infatti, Stati all’epoca sempre soggetti a governi autoritari come Spagna e Portogallo, e nemmeno altre nazioni europee che pure godevano già di un regime democratico o parlamentare. Però le premesse sembravano rosee, e così si sono mantenute per molto altro tempo ancora, seppur sotto l’ombrello della NATO perché, sia ben chiaro, quel primo embrione di Europa unita nasceva e prosperava comunque sotto lo scudo atlantico; ed ha continuato a farlo anche in seguito, quando “l’altra Europa” con le sue varie istituzioni aggreganti (il Patto di Varsavia, il Comecon, ecc) s’è dissolta venendo a partire dagli Anni ’90 assorbita proprio dalla NATO che a quel punto avviava la sua corsa ad Est, in parallelo con l’UE che nel mentre aveva raccolto il testimone della vecchia CEE. Nel 1957 l’Europa unita doveva essere garanzia di pace per tutto il Continente, e fra i suoi principali obiettivi vi era proprio quello d’impedire il sorgere di nuove guerre al suo interno, oltre a quello di promuovere un sempre maggior benessere economico.
Ma è stato davvero così? Nel 1991-1992 abbiamo assistito al dramma jugoslavo e balcanico, con un conflitto civile che ha frammentato uno Stato sovrano e non allineato, una tragedia che nel 1998-1999 ha avuto la sua seconda e definitiva puntata con la Guerra del Kosovo. Nel mentre nel vicino Caucaso scoppiavano vari conflitti inter-etnici ed intra-etnici, che coinvolgevano le ex repubbliche sovietiche locali, Russia compresa: Armenia contro Azerbaijan, conflitto interno in Georgia, e poi vere e proprie guerre di religione e separatiste nelle repubbliche russe della Cecenia, del Daghestan, ecc. Negli anni successivi l’UE non ha saputo prevenire altri gravi problemi, come quelli procurati dall’azione spesso temeraria ed avventuriera dei suoi pincipali partner politici e militari, Stati Uniti in primis: ecco allora le divisioni interne sull’invasione dell’Iraq nel 2003, e prima ancora la partecipazione acritica ed ancillare all’operazione in Afghanistan di fine 2001, e tutta una serie di gravi dossier che queste due drammatiche vicende hanno comportato automaticamente.
E poi vi sono state le varie “Rivoluzioni Colorate”, cominciando dalla prima che conobbe l’Ucraina, la Rivoluzione Arancione del 2004, che ha avuto una ripetizione meglio riuscita con Euromajdan nel 2014, dove l’UE era in prima fila nella destabilizzazione di quel paese, anche a costo di ricorrere a manovalanza neonazista o di estrema destra come Pravy Sektor e Svoboda. Ma anche nei Balcani, durante la guerra civile in Jugoslavia, alcuni paesi europei (si dice il peccato ma non il peccatore, perché tanto si sa in fondo di chi stiamo parlando) diedero un forte contributo politico, economico e diplomatico alla destabilizzazione di quel paese, riconoscendo la Croazia e le sue ambizioni separatiste, e fomentando i nuovi Ustascia di Tudjman e i nuovi combattenti islamisti di Itzebegovic, esattamente come nel 1998 fomentarono e sostennero i loro emuli ed eredi dell’UCK kosovaro. Si risvegliarono così i fantasmi che si credevano per sempre sepolti con la fine del Secondo Conflitto Mondiale, quando i collaborazionisti nazisti ucraini di Stepan Bandera, gli Ustascia di Ante Pavelic e i collaborazionisti musulmani radicali tatari, caucasici e bosniaci insanguinavano le terre assoggettate al Terzo Reich. Non si può dire che sia stato merito, ma proprio no.
Ancora oggi, l’UE che fa per garantire davvero la pace o quantomeno per recuperarla un po’, nelle terre che la circondano? Basterebbe semplicemente non ingerire, non provocare, non alimentare certe situazioni di caos; e, invece, non soltanto lo si continua a fare nei Balcani, ma lo si fa anche più in là, in Nord Africa, in Medio Oriente, persino in America Latina. Dalla Libia alla Siria fino al Venezuela e alla Bolivia, gli esempi d’inutili e dannose intromissioni della diplomazia di Bruxelles e dei vari Stati UE nelle vicende interne di altri paesi sovrani non si contano, e sono quasi sempre state cagionate dall’influenza del più potente partner d’Oltreoceano; ma non sono state poche nemmeno quelle tutte “farina del suo sacco”.
E poi vi è il tema della crescita e della tutela del benessere sociale ed economico dei tanti cittadini europei. Le loro condizioni di vita sono davvero migliorate, anche soltanto rispetto a quel 2012 in cui l’UE venne insignita del Premio Nobel per la Pace? Si pensi anche soltanto alla Grecia e a tutto quel che ha vissuto; ma insieme ai greci, a piangere sono anche tanti altri popoli europei, sempre più spogliati di Stato sociale, di sicurezze per il futuro, di lavoro, in una sola parola: di dignità. Mentre molte nazioni dell’Est Europa, entrate nel corso del tempo nell’UE, hanno conosciuto un tracollo dei loro vari indici di benessere (aspettative di vita, mortalità infantile, diffusione di varie malattie, come AIDS, ecc, oltre all’alcolismo o alla tossicodipendenza), che già in precedenza non erano sempre dei migliori, il tutto in un quadro di deindustrializzazione e quindi disoccupazione ed emigrazione galoppanti. Anche questo, decisamente, non può essere considerato un merito; tantomeno da venir premiato.
In termini semplici, l’UE con la sua nascita doveva impedire ciò che invece ha poi permesso che avvenisse, spesso dandovi anche un suo importante e grave contributo. Ecco, il 10 Dicembre 2012 all’UE venne dato un Premio Nobel per la Pace su ragioni puramente politiche: non certo per effettivi e reali, men che meno incontestabili, meriti di pace. Visto che l’anniversario è appena passato, vale la pena ricordarlo. Forse un giorno, chissà, potremo anche dire: “non fu vera gloria”.