Cosa è stata la “disfatta” di Caporetto, è difficile ancor oggi da spiegare. La sterminata bibliografia, che ancor oggi caratterizza l’argomento, ha voluto offrire le più variegate interpretazioni e spiegazioni, arrivando a diverse conclusioni, se non anche, a celare alcuni misteri.
Cos’è Caporetto ai nostri giorni? E’ un villaggio sloveno, di circa quattromila abitanti, vicino alla Carnia e al Natisone. Un museo della guerra, ove transitano alcune scolaresche. Itinerari turistici tra collina, montagna e la bellezza dell’Isonzo. Ma proprio lì, tra il 24 ottobre e il 27 novembre 1917, accadeva una delle più grandi ritirate del Regio Esercito italiano che stava combattendo contro le truppe austriache. Una disfatta talmente disastrosa che ha visto indietreggiare le nostre truppe fino al fiume Piave, organizzando la resistenza tra la laguna di Venezia, il Piave e il Monte Grappa.
La prima spiegazione che si può dare di quella sconfitta è “sciopero militare”. Apparentemente, il fante, logorato da 2 anni di durissima guerra di trincea, con poche vittorie significative (se non la presa di Gorizia), si era stancato di combattere. Eppure, ben altro può esser imputabile ai semplici soldati, ma non la mancata forza di volontà di combattere in un terreno infido e contro un nemico potente. In realtà, i grossi errori furono commessi dai Comandi. Non si poteva certo fondere una tattica difensiva ad oltranza ed una controffensiva strategica, due visioni opposte che vedevano protagonisti il Generale Capello e il Supremo Comandante Cadorna. Innegabile è stata la confusione nella direzione delle operazioni, nelle divergenze tra il Comandante Supremo e quello della II Armata.
Il 20 ottobre 1917 Capello si trovava in una situazione penosa. L’offensiva nemica, ben avvistata, si stava avvicinando sempre di più, ma Cadorna, richiama il Generale alla difensiva semplice. Affetto da nefrite, Capello va e viene dal fronte, sino a riassumere il comando il giorno 23. Persuaso della gravità della situazione, dà il massimo incremento ai movimenti di truppa tesi a rafforzare la debole ala sinistra della sua armata. Il continuo spostamento di truppe, era una vera e propria ridda di movimenti e mutamenti che connotava la stupidità dei comandi. Nessuno è stato in grado di applicare seriamente degli ordini: né Capello, né Badoglio, né Cadorna.
Il bombardamento nemico cominciò effettivamente alle 2 del 24 ottobre, diretto verso le batterie ed eseguito con proiettili ordinari e a liquidi speciali, come un violentissimo tiro di interdizione sulle strade tale da renderle totalmente impercorribili. Cosa voleva fare Badoglio, imputato di non aver né usato il tiro di contropreparazione, né l’artiglieria in generale, non lo sappiamo. Probabilmente, voleva risparmiare munizioni per la controffensiva (mai avvenuta).
Così, la 19° divisione del 27° Corpo d’Armata, attaccata da forze austriache immensamente soverchianti, fu sbaragliata dal nemico in poche ore. Ed esso poté così penetrare in Val Judrio, giungendo a Caporetto, mal difeso dalla Brigata Foggia. Questo fu solo il preludio della sconfitta. Nel frattempo, sempre a livello militare, era caduta la prima linea e il saliente del Monte Nero. Era stata intaccata la seconda linea nel punto in cui essa si era unita alla precedente e dove passava sulla sinistra vicino ad Idresca d’Isonzo. Tuttavia, la terza linea M. Stol, Matajur, M. San Martino, Monte Xum, Globocack era intatta e in parte coperta dal tratto della seconda linea, Globi Drenchia, tenuto ancora dal 7° Corpo d’Armata. Quando cadde il Matajur, crollò anche la terza linea, il 25 ottobre. E ancora il 26, perduto anche Globocack, si poteva sperare in una resistenza sulla linea del Monte Maggiore, Madlesenn, Castel del Monte, Monte Corada, dove dovevano schierarsi, secondo l’ordine del comando dell’alba del 25 ottobre, le Brigate Jonio, Ferrara, Girgenti e il 7° Gruppo Alpino. Infine, verso le ore 16 del 26 ottobre cadeva il caposaldo del Monte Maggiore occupato da alcuni alpini stanchi e disorientati. Anche l’ultima vana speranza di salvare il Friuli era perduta, e all’alba del 27 il Comando Supremo ordinava la ritirata al Tagliamento. La Brigata Salerno, purtroppo, arrivò tardi e priva di orientamento. La Brigata Potenza giunse sulle sue posizioni priva di mitragliatrici. I provvedimenti difensivi furono adottati solamente 24 ore prima, vittime del dualismo inutile Capello – Cadorna. L’uno voleva l’offensiva, l’altro la difensiva. Si decise per la controffensiva, ma troppo tardi. E questo non fu colpa né del disfattismo, né di Giolitti, né di Papa Benedetto XV che aveva bollato poco tempo prima (in parte anche giustamente) la guerra quale inutile strage.
L’immaginario collettivo
“Ma in una notte triste si parlò di un fosco evento,
e il Piave udiva l’ira e lo sgomento…
Ahi, quanta gente ha visto venir giù, lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!
Profughi ovunque! Dai lontani monti
venivano a gremir tutti i suoi ponti.
S’udiva allor, dalle violate sponde,
sommesso e triste il mormorio dell’onde:
come un singhiozzo, in quell’autunno nero,
il Piave mormorò: “Ritorna lo straniero!”.
La Leggenda del Piave, canzone di E.A. Mario, è composta da alcune note che indicano in maniera dettagliata il disastro che quella battaglia infausta aveva causato. In particolar modo si evince il concetto di profughi e profuganza, sinora sconosciuto. La ritirata vide innanzitutto l’invasione di Friuli Venezia Giulia e Veneto. Come si legge nella canzone, molti partirono lasciando il tetto, gli averi, dotati di carretti di “fortuna”, impegnati in lunghissime marce verso territori non occupati. Per la prima volta il Governo dovette affrontare un’emergenza mai vista prima: i profughi. Questi ultimi, veneti e friulani, vennero assegnati per lo più in regioni meridionali, dove le abitudini di vita, in primo luogo alimentari, erano completamente diverse.
I comandi militari imposero di dare priorità alle truppe e ai mezzi militari, con requisizioni di mezzi civili e divieto di uso delle strade principali, che portavano alla pianura padana. Molti di questi esuli in patria, abbandonate le case, perirono durante questa fuga di massa, per esempio a causa della piena dei fiumi che si trovarono ad attraversare lungo strade secondarie. Solamente 270 mila riuscirono a porsi in salvo, mentre gli altri perirono durante la distruzione dei ponti o intercettati dall’Esercito austro – ungarico.
Non sempre furono accolti bene i nostri profughi, sebbene inizialmente la solidarietà popolare si dimostrò ben assestata. Seppur essi rappresentarono a posteriori un primo tentativo di unità nazionale, coadiuvato dai soldati di tutte le regioni italiane presenti nelle trincee, molte volte i profughi settentrionali venivano addirittura accusati di “rubare il pane”, alle povere regioni meridionali. Furono circa 600mila i profughi determinati dalla battaglia di Caporetto, disperati senza casa né averi, in fuga di fronte ad un esercito nemico, che li stava inseguendo. Per la prima volta, i parlamentari veneti e friulani, fecero pressione al Governo di Roma al fine di ottenere particolari forme assistenziali, per salvaguardare questi derelitti. Il riconoscimento, dello status di profugo non era semplice, ed impiegava parecchio tempo, così come il ricongiungimento dei nuclei famigliari, non era cosa di poco conto. Questi problemi, che sentiamo quotidianamente per televisione o apprendiamo dai mezzi di informazione, nei riguardi di cittadini stranieri, sono stati vissuti per la prima volta dagli italiani, in particolar modo veneti e friulani, dopo la disfatta di Caporetto.
Il disastro militare, comportò anche un senso di riscossa e rinascita. Il Generale Cadorna, lasciò il posto ad Armando Diaz, futuro Duca della Vittoria, nuovo Capo delle Forze Armate. Il Comando Supremo del Regio Esercito venne spostato da Udine a Padova – Abano Terme. I metodi usati dagli alti comandi divennero più umani, generando volontà di riscossa. Se l’8 settembre può definirsi uno sbandamento completo, del “tutti a casa”, con una volontà intrinseca di resa incondizionata ad un nemico soverchiante, Caporetto genera il sentimento opposto: la rinascita per la vittoria. La resistenza venne organizzata nella Laguna di Venezia, sul luoghi come il Monte Grappa, sull’Asolone, il Monte Tomba. Se gli austriaci avessero vinto in quelle cime, sarebbero dilagati lungo tutta la pianura padana. Luoghi che purtroppo non hanno quasi mai visto la visita di un Presidente della Repubblica, salvo Francesco Cossiga, visitatore del Sacrario del Monte Grappa.
Infine, se vogliamo vederla come Curzio Malaparte, o al secolo Kurt Erich Suckert, una delle più belle penne del fascismo e dell’antifascismo, Caporetto è un fenomeno sociale, una sorta di rivoluzione. Si tratta di una rivolta di classe: la fanteria, che era in trincea quotidianamente, contro gli “imboscati”, retoricamente patriottici ed umanitari. E’ una forma di “lotta di classe”, poiché tutti i fenomeni che hanno accompagnato Caporetto sono stati perturbamenti sociali. Perché come in tutte le rivoluzioni, vi fu una classe, una mentalità, un casta che si gettò, cenciosa ed urlante contro un’altra. L’Italia dei ciompi, dei pezzenti, dei ribelli, dei veterani, quella delle 11 battaglie dell’Isonzo, contro quella “bordello”. Quando il fronte crollò, abbandonato dagli “insorti” di Caporetto, ebbe inizio la fuga delle retrovie, dei servizi, degli imboscati e degli sfruttatori, per lasciar spazio alla rivolta del Fante, coperto di fango, ferito ed eroico. Per la prima volta, il ventre d’Italia tremò: comparve anche il pericolo comunista, udendo ciò che in Russia stava accadendo.
In questo contesto si configura la magnifica difesa del Grappa, una inevitabile conseguenza delle caotiche e violente giornate dell’Ottobre di Caporetto. Solo comprendendo che Caporetto poteva essere l’inizio di una rivoluzione stroncata, allora capiamo anche i fattori che portarono all’implosione, pochi mesi dopo, dell’Impero austro – ungarico. Se è vero che la spinta li portò alle porte delle città venete, gli stessi soldati austriaci non avevano più la potenza necessaria per proseguire la marcia. I tumulti interni all’Impero causarono l’implosione. Le truppe italiane videro la loro rinascita e riscossa nella Battaglia di Vittorio Veneto, capolavoro militare.
Cent’anni dopo, Caporetto è ancora un nome che evoca infausti ricordi. Un minuscolo paesino che non è più territorio nazionale, è stato teatro di un qualcosa che rimarrà nel nostro immaginario collettivo. Ricordando comunque una cosa: che il popolo italiano, quando ritrova l’unità, nelle situazioni d’emergenza è tra i migliori al mondo. Purtroppo, non altrettanto nelle situazioni normali.
Caporetto, Otto Settembre, ecc. Tutte dimostrazioni di una classe dirigente, che a parte qualche eccezione, non e’ mai stata all’altezza della situazione. Ora come allora, ahime’ !