Il 17 Marzo del 1861 il nuovo parlamento, appena insediatosi a Torino, proclamava il Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II di Savoia come suo sovrano e Camillo Benso Conte di Cavour come suo primo ministro. Sono passati da allora 160 anni: di solito, quando il tempo trascorso è così tanto, gli anniversari possono essere occasione per qualche bilancio, prima ancora che per qualche festeggiamento (peraltro quest’anno, vista la situazione corrente, il festeggiamento è bene che sia soltanto simbolico o poco più).

Che dire? Non si può certo sostenere che l’Italia unita, questi 160 anni, li porti proprio bene: i problemi sono tanti, e se certi suoi mali originari nel tempo si sono pure sanati, è pur vero che al tempo stesso altri ne sono affiorati; a tacer, poi, di quelli che si credevano esser debellati e che invece, con la crisi economica e sociale degli ultimi anni, sono addirittura “rifioriti”. Pensiamo all’emigrazione: per decenni il nostro paese ha avuto, nella sua manodopera, una forte voce delle sue esportazioni. Trent’anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il 17 Marzo 1891, nel drammatico naufragio del piroscafo inglese “Utopia” presso Gibilterra, perirono 563 italiani partiti da Napoli alla volta di New York, in cerca di un migliore destino. Già in quel momento c’era ben poco da festeggiare: era un anniversario all’insegna del lutto. Quelle vittime, tutte meridionali, ricordavano insieme a tante altre quanto fosse ancora pressante, dopo trent’anni d’Unità, il tema della “Questione Meridionale” nel nostro paese: un tema che, scomparso qualche decennio dopo dal linguaggio politico (forse più per pudore che per altro), in seguito comunque v’è ritornato prendendosi giustamente e prepotentemente la scena.

L’Unità d’Italia fu tutt’altro che una passeggiata di salute o un risultato ottenuto in modo indolore: unire entità statali diverse come i vari regni preunitari, del resto, era un compito decisamente al di sopra delle capacità della classe politica liberale e risorgimentale, al cui interno comunque non mancavano anche figure di grande caratura. Ma quel “sistema paese” che tale classe politica doveva realizzare non poteva ed in parte nemmeno voleva risolvere tutti quei problemi che pure si prefissava, almeno dichiaratamente, di voler risolvere: ne avrebbero pur sempre risentito anche altri “equilibri” od “interessi”, importanti sia in patria che all’estero. La ricerca di un compromesso con cui tirare avanti, dunque, diventò sempre più la “filosofia esistenziale”, quasi una vera e propria “religione laica” o “religione politica”, del cosiddetto “sistema Italia”.

Fu così anche col Fascismo, e dopo la Guerra anche con la Prima Repubblica. Oggi, che siamo in tempi di Seconda o forse anche di Terza Repubblica, non è tanto diverso: si sopravvive un po’ a noi stessi, cercando di volta in volta di mettere un po’ di stucco a coprire delle crepe in realtà ben più antiche e profonde, tali da richiedere interventi più radicali (ma non c’è, e del resto nemmeno c’è mai stata, la capacità e la volontà d’individuarli nel loro insieme e nella loro complessità, e men che meno di metterli in pratica). In questi anni, per esempio, abbiamo parlato tanto e spesso anche in modo fin troppo retorico delle virtù curative delle “riforme”: ogni governo, legislatura, leader, capocorrente, non ha esitato a rendersene interprete. Leggi, leggine, decreti, decretini: pareva sempre che fosse finalmente la volta buona, e invece era sempre il solito faldone di carte che andava ad ammucchiarsi sui precedenti, senza alcun esito migliorativo sulla situazione esistente (non di rado, anzi, l’esito era pure peggiorativo).

Il sistema di decentramento e di suddivisione delle competenze fra i vari organi dello Stato, in particolare enti locali e territoriali, ha peggiorato sempre tutto quello che c’era portando ben di rado a veri miglioramenti: dalla riforma del Titolo V (foriera di continue conflittualità fra Stato e regioni, e che ha contribuito nemmeno poco al peggioramento della Sanità coi risultati che oggi, in epoca di Covid, possiamo tutti facilmente constatare) alla finta abolizione delle province, senza parlare poi dei vari, vaghi ed infruttuosi tentativi di “federalizzare l’Italia” tramite Devolution ed autonomie che non sono andate in porto, il risultato è che oggi, dopo vent’anni, ci ritroviamo con un paese meno unito di prima, le cui differenze interne anziché essersi ridotte si sono spesso anche drammaticamente incrementate. Forse, se proprio dobbiamo parlare di Anniversario e di Unità, allora facciamolo in modo costruttivo, chiedendoci se quello che vogliamo sia un’Italia sempre più divisa al suo interno sia per standard territoriali sia per differenze sociali anche all’interno degli stessi territori: se non altro perché sennò, di questo passo, sarà difficile poter celebrare un 180esimo o un 200esimo Anniversario, se non “postumo”.

Già economicamente, ma non è poco (l’economia, in fondo, fa da pilastro a tante altre cose, non ultimo anche all’unità politica, e non solo nel nostro caso perché la storia di precedenti ce ne consegna quanti ne vogliamo) oggi assistiamo ad un’Italia settentrionale sempre più nell’orbita dell’Europa continentale ed in particolare della Germania e ad un’Italia meridionale sempre più abbandonata al proprio destino in mezzo ad un Mediterraneo dove il nostro paese non sa più esattamente chi sia e cosa voglia fare. Ecco, pensiamoci perché giorno dopo giorno (e non è certo da oggi) ci stiamo davvero giocando l’Italia.