1958: l'anno infausto in cui l'Italia non andò ai mondiali

Nella gloriosa storia del calcio italiano c’è un grosso buco nero chiamato 1958. Le infauste spedizioni brasiliane del 1950 o del 2014, il Cile, le due Coree o le ultime figuracce in Sudafrica da campioni in carica sono state grosse macchie per una selezione che ha vinto quattro titoli mondiali, però se c’è stato un grosso vuoto nella storia del calcio italiano questo è il 1958, l’unico anno in cui l’Italia non riuscì a qualificarsi ad una fase finale di un mondiale. Già nel 1930 gli azzurri non parteciparono alla prima edizione della Coppa Rimet, ma solo per iniziativa della Federazione che non aveva i fondi necessari per accollarsi una costosissima trasferta in Uruguay, ventotto anni dopo invece la squadra azzurra non riuscirà a qualificarsi solo ed esclusivamente per demeriti propri.

Una crisi di “Sistema”

La mancata qualificazione ai mondiali di Svezia 1958 non fu però un caso isolato ma il culmine di una lunga parabola discendente incominciata con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Il secondo tragico conflitto infatti nel nostro paese decimò un’intera generazione di potenziali calciatori: più morti in guerra e meno gente che corre dietro ad un pallone è infatti un’equazione sin troppo ovvia in questi casi. Il Grande Torino, la squadra che dominò il calcio italiano dal 1942 al 1949 fu l’ultimo colpo di coda dello straordinario movimento calcistico che portò l’Italia a vincere due mondiali nel decennio precedente. La sciagura di Superga spazzò via così non solo una squadra straordinaria ma anche gli atleti di maggior valore che componevano per la quasi totalità anche la Nazionale. Perirono così non solo due fuoriclasse epocali come Valentino Mazzola (uno dei primi calciatori universali e polivalenti) e il giovanissimo Virgilio Maroso (uno dei primi terzini fluidificanti) ma anche altri sette, otto giocatori che potevano tranquillamente essere considerati tra i migliori d’Europa nei loro rispettivi ruoli. Ma la crisi del calcio italiano non fu solo Superga: dal punto di vista tattico i successi a ripetizione dal Toro, una squadra che per inciso sarebbe stata grande e vincente con qualsiasi modulo, imposero infatti il Sistema (con i numeri di oggi un 3-2-2-3), un modulo molto rischioso che poteva essere applicato solo dai granata che avevano un roster di valore mondiale e non da altre squadre più mediocri di cifra tecnica. La scarsa copertura degli spazi fornita dal WM, i continui duelli uomo contro uomo che caratterizzavano questo modulo, mal si sposavano con le caratteristiche degli atleti italiani (quasi tutti scattisti privi di doti atletiche naturali) che invece preferivano coprire gli spazi e poi agire di rimessa utilizzando il contropiede sulla lezione del vecchio Metodo. Vittorio Pozzo vinse ben due mondiali utilizzando questo modulo (in numeri un 2-3-2-3) ed il contropiede, ma una volta andato in crisi questo modulo, non seppe trovare contromisure adeguate e finì per sposare, pur obtorto collo e con molti ripensamenti, la causa sistemista. Dalla stagione 1947/48 infatti l’anziano CT impose che tutte le Nazionali, da quella maggiore, alle giovanili adottassero i dettami del modulo inglese per porre fine all’annosa questione tra Metodo e Sistema che si stava trascinando avanti da prima dello scoppio del secondo conflitto.

Lo storico undici della Nazionale che schierò dieci giocatori del Grande Torino (Italia – Ungheria 11 maggio 1947)

Buchi a centrocampo, vuoti di potere

Il risultato immediato di queste scelte furono due figure barbine, un mortificante 0-4 contro l’Inghilterra a Torino (la stessa Inghilterra in Brasile si farà cacciare dagli Stati Uniti) e una precoce eliminazione dal torneo olimpico di Londra, dove Pozzo convocò una selezione di giocatori di squadre minori (quasi tutte ancorate al vecchio Metodo) per poi farla testardamente giocare secondo i crismi del Sistema! L’ingloriosa eliminazione contro la pur forte Danimarca (poi finita sul podio) segnò la fine della gloriosa carriera di Pozzo che fu sostituito da una serie di commissioni tecniche estremamente variegate e litigiose. L’ex CT per tutta la sua gestione ventennale si occupò di tutto, dal lavoro di campo alla selezione per le rappresentative giovanili senza ricevere il becco di un quattrino (riceveva il regolare stipendio di giornalista presso La Stampa e un misero rimborso spesa per i viaggi). Normale che la dipartita di un personaggio del genere lasciasse un vuoto incolmabile in seno alla Federazione: da un solo uomo al comando si passò così a tanti uomini che banchettavano attorno alla nazionale con metodi, visioni, interessi (spesso corrispondenti alle squadre di Milano e Torino) diametralmente opposti e in contrasto. Sul piano tecnico la scomparsa del Grande Torino, che faceva del sontuoso quadrilatero di centrocampo Grezar-Castigliano-Loik-Mazzola il suo punto di forza, rese vulnerabile l’Italia proprio nel settore nevralgico del gioco. Grezar e Castigliano erano due mediani completi nel repertorio e complementari, che sapevano far legna ma anche giocare di fino con entrambi i piedi, cosa sconosciuta alla maggior parte dei centrocampisti difensivi italiani che per prototipo erano o ruvidi medianacci oppure registi dal tocco di palla vellutato ma dotati di scarso nerbo atletico. Loik e Mazzola erano invece due giocatori “totali”, avanti almeno vent’anni sul resto dei loro omologhi, che facevano egregiamente le due fasi, cosa che la maggior parte degli atleti italiani non sapeva fare, anche per il motivo che i ruoli di mezzala nelle grandi squadre italiane stavano ormai per essere occupati in gran parte da fuoriclasse stranieri (gli svedesi Gren e Liedholm al Milan, i danesi John e Karl Aaege Hansen nella Juventus, l’olandese Wilkes nell’Inter!).

Una crociera da brivido (Brasile 1950)

La prima risposta della nuova commissione tecnica presieduta dal presidente del defunto Grande Torino Ferruccio Novo (che per inciso era nemico giurato di Pozzo) fu quella di riciclare nel ruolo di mezzala attaccanti come Cappello, Lorenzi, Amadei o Boniperti che non sapevano assolutamente cosa fosse la fase difensiva. Nel 1950 così, con una Nazionale improvvisata e mal gestita dal trio Novo – Bardelli (giornalista del bolognese Stadio con forti interessi nel club felsineo) – Copernico (dirigente del Torino) si fece eliminare al primo turno dalla Svezia dopo una farsesca trasferta in nave (il ricordo di Superga era ancora vivo!). Il risultato di quel fiasco fu che nove undicesimi della selezione svedese, composta integralmente da giocatori dilettanti, andarono a giocare in Italia alla ricerca di faraonici contratti! Invece che risolvere il problema alla radice si pensò bene di acuirlo ancora di più.

Il contrappasso elvetico (Svizzera 1954)

Nel 1954 altra figuraccia ai mondiali di Svizzera: questa volta la Federazione ritornò parzialmente alla figura del Commissario Unico, l’ungherese Lajos Czeizler, un giramondo che aveva fatto vedere cose egregie prima in Svezia e poi con il Milan dei suoi cocchi Liedholm, Gren e Nordahl (da lui scoperti e svezzati). Costui in realtà non giunse da solo alla guida degli azzurri ma fu affiancato da una teoria di vecchie glorie azzurre come l’ex bomber del Bologna Angiolino Schiavio e Silvio Piola che, piccolo particolare, a quarantanni suonati non aveva nessuna intenzione di appendere le scarpette al chiodo essendo ancora tesserato con il Novara, club che allora militava in Serie A. In questa situazione kafkiana Czeizler rimase solo a cantare e portare la croce e ci mise molto del suo nel disastro che si stava profilando. La rosa a disposizione del tecnico magiaro infatti non era poi così male (Boniperti era allora reputato tra i migliori calciatori europei, la difesa era più che buona) ma “Zio Lajos” (così lo definiva Gianni Brera che lo reputava “l’unico ungherese a non capire nulla di calcio”) non seppe dare un’impronta alla squadra e governare uno spogliatoio bollente e litigioso. Dopo aver puntato tutto sul blocco difensivo della Fiorentina salvo poi giubilarlo in tronco alla prima difficoltà, la Nazionale sbatté contro un arbitro brasiliano (tal Viana che annullò un gol regolare di “Veleno” Lorenzi) e contro il catenaccio applicato dagli svizzeri padroni di casa che ci mandarono a casa con un perentorio 4-1.

Colpa d’Alfredo

Il fiasco ai mondiali svizzeri non fece che aumentare la confusione in casa azzurra. La dura crisi che aveva colpito il vivaio italiano sembrava non avere fine anche perché nelle grandi squadre metropolitane continuavano a dominare le stelle straniere. La Federcalcio così imbastì una mega Commissione  formata dall’onnipresente quanto inutile Angiolino Schiavio (che nella vita di tutti i giorni faceva il commerciante nella sua Bologna ed era quindi del tutto estraneo al rutilante ambiente pallonaro) e dall’homo novus Giuseppe Pasquale (dirigente della Spal e presidente della Lega Calcio) e da due dirigenti di squadre provinciali: Luciano Marmo, padre padrone del Novara e Luigi Tentorio dell’Atalanta. Accanto a questa pletora di nomi fu affiancato quello che era ritenuto il miglior allenatore italiano in circolazione, Alfredo Foni, ex terzino della Juventus e della Nazionale campione olimpica nel 1936 e del mondo nel 1938. Costui, che aveva sposato una svizzera ed era residente in Canton Ticino, una volta giunto sulla panchina dell’Inter nell’estate del 1952 decise di scopiazzare il famigerato modulo a Verrou (Catenaccio in francese) adottato dalle formazioni elvetiche. L’Inter aveva acquistato due estati prima Ivano Blason, possente difensore che nella Triestina di Rocco furoreggiava da terzino centrale, libero da impegni di marcatura. All’Inter però l’unico modulo concepibile era il Sistema e Blason fu così mandato sulla fascia a marcare alette piccole e guizzanti, il risultato fu un prevedibile disastro! Foni ebbe il buonsenso di riportare Blason al suo antico ruolo di libero spostando sulla fascia l’ala destra Armano che così divenne il primo “tornate” della storia del calcio. A centrocampo, il tecnico friulano impose la cacciata di Wilkes, bravo ma troppo fumoso ed innamorato del dribbling che fu sostituito dal più pratico Mazza. Il risultato fu un incredibile doppietta di scudetti (1952/53 e 1953/54) ottenuti sotto i fischi dell’esigente pubblico meneghino e le bordate della stampa sportiva che bollarono artificio tattico di Foni come “anticalcio”. Tra gli accusatori del catenaccio nerazzurro non c’erano solo i giornalisti del Mezzogiorno, avversi a tutto ciò che avveniva al settentrione, ma anche illustri personaggi come Vittorio Pozzo (che da torinese probabilmente aveva ben poca simpatia dei milanesi!). Il vecchio Commissario Tecnico aveva vinto due mondiali utilizzando la difesa ed il contropiede ma probabilmente allora si era diementicato di questo dettaglio sparando così a zero sulla trovata tattica del proprio pupillo… Foni, una volta giunto sulla panchina azzurra, non se la sentì di tornare al suo modulo e si piegò al conformismo e ai voleri di certa stampa e critica, il risultato fu un autentico disastro!

La “scandalosa” Inter del 1952/53 (Foni è il primo in piedi da sinistra)

Ritornano gli oriundi

L’altra strada battuta da una Federcalcio che brancolava nel buio più fu quella della naturalizzazione degli oriundi, sul modello della vincente Italia di Pozzo sotto il Ventennio mussoliniano. Questa pratica, oltre che causare molti attriti con le federazioni sudamericane, fu effettuata pure in modo assai spregiudicato e con metodi da Azzeccagarbugli. Ad esempio su Schiaffino pochi dubbi c’erano sulle sue origini italiane: il suo cognome (qualcuno con un pizzico di fantasia asserì che era discendente del patriota garibaldino Simone Schiaffino), il suo carattere spigoloso e fin troppo tirchio evidenziavano origini liguri al 100%. Qualche problema invece si poneva con l’altro uruguagio Ghiggia, che era sì oriundo italiano ma del Canton Ticino (i Ghiggia sono tutti originari di un paesino chiamato Sonvico), oppure con l’argentino Montuori che aveva sì cognome partenopeo ma anche una carnagione scura più da indio che da europeo. All’asso brasiliano della Fiorentina Julinho Botelho, uno spilungone di pura schiatta portoghese, fu addirittura trovato un inesistente avo toscano! Anche la soluzione degli oriundi fu solo un tampone che non risolveva gli atavici problemi dell’Italia.

Sembrava una passeggiata…

Per la qualificazione ai mondiali del 1958 l’Italia fu inserita nel Girone 8 assieme alle modeste selezioni dell’Irlanda del Nord e del Portogallo (Eusebio e Coluna non erano ancora sbocciati!). ll 25 aprile 1957 a Roma, pur non senza qualche difficoltà, gli Azzurri ebbero la meglio sui nord irlandesi per 1-0 grazie ad una bordata su punizione dello specialista Cervato, un mese più tardi però gli uomini di Foni furono travolti a Lisbona per 3-0 dal Portogallo, che nel frattempo aveva pareggiato in casa e perso a Belfast le due partite contro la selezione nordirlandese. Tra le due partite va evidenziata una storica umiliazione: un 6-1 subito a Zagabria contro la forte Jugoslavia in un incontro per nostra fortuna amichevole. Questa storica figuraccia ebbe delle ripercussioni non da poco: il tentennante Foni decise di eliminare il blocco difensivo della Fiorentina (come Czeizler quattro anni prima, corsi e ricorsi…) ed il portiere Lovati, così contro il Portogallo Foni schierò una formazione completamente inedita e sperimentale che tornò a casa con tre pappine sul groppone… Dopo la disfatta di Zagabria in Italia molti dirigenti si convinsero che la grande qualità dimostrata dai giocatori slavi era esclusivo merito degli allenatori jugoslavi, fu così che a partire dalla stagione 1957/58 una legione di allenatori slavi si sedette su panchine di Serie A (Benćić a Bologna, Broćić sulla panchina della Juventus, Ćirć su quella della Lazio, Marjanović su quella del Toro), il solo Broćić riuscì a terminare l’annata (con uno scudetto per giunta)! In questa situazione tragicomica in cui era precipitato ci mise del suo la mala sorte: il 4 dicembre 1957 l’Italia pareggiò in Irlanda del Nord ma il match non fu convalidato perché l’arbitro ungherese Zsolt non riuscì a presentarsi all’appuntamento in quanto fu bloccato all’aeroporto di Londra causa nebbia, il match fu arbitrato da un irlandese e fu così registrato come semplice “amichevole”. Pochi giorni prima del Natale 1957 l’Italia si vendicò dei lusitani (dove il terzino Virgilio era l’unico superstite del match del 1949 che “costò” la vita al Grande Torino) con un altro 3-0 che metteva l’Italia in corsia preferenziale: per qualificarsi bastava così un pareggio in terra d’Irlanda.

La disfatta di Belfast

Il 15 gennaio 1958  a Belfast era in programma il match verità: l’Irlanda del Nord era una squadra più che modesta con due soli grandi giocatori, il metronomo di centrocampo Danny Blanchflower, bandiera del Tottenham ed il portiere del Manchester United Harry Gregg che un mese dopo uscirà illeso dalla sciagura aerea di Monaco di Baviera in cui persero la vita alcuni suoi compagni di squadra. Piccolo particolare: come Zsolt all’andata anche Gregg fu bloccato dalla nebbia all’aeroporto di Londra e così il CT irlandese Docherty schierò in campo la sua riserva Uprichard. Il dottor Foni (era laureato in Economia e Commercio) per un match che poteva essere pareggiato anche 0-0 scelse invece una formazione che più sbilanciata non si può: davanti al portiere Bugatti, valido guardiano del Napoli, furono scelti il ripescato interista Vincenzi e lo juventino Corradi con “Mobilia” Ferrario, altro bianconero, stopper centrale. A centrocampo, nella canonica coppia di mediani tipica del WM fu schierato un solo incontrista e per giunta esordiente, l’interista “Robiolina” Invernizzi, con al suo fianco Segato, regista della Fiorentina. Ma fu nel canonico quintetto d’attacco che il genio di Foni si sbizzarrì schierando cinque giocatori che non avevano assolutamente nelle loro corde la fase difensiva: Ghiggia, Schiaffino, Pivatelli, Montuori e Da Costa. Pivatelli e Da Costa (oriundo brasiliano con cognome portoghese!) erano due centravanti puri, Montuori era una seconda punta che giocava in questo ruolo anche nel suo club, la Fiorentina. Schiaffino era un genio del pallone ma a compiti di spola si dedicava solo se era costretto  dal carisma del Jefe Varela, suo compagno al Peñarol e con la Celeste! Il disastro era così annunciato prima del fischio d’inizio dell’arbitro magiaro Zsolt (sì proprio lui) che questa volta era riuscito a presentarsi all’appuntamento in tempo. In campo gli irlandesi iniziarono a menare come fabbri dal primo minuto, l’Italia invece ci produsse in uno sterile possesso palla con il suo quadrilatero di centrocampo pieno di fiorettisti, così al 13’ la mezzala sinistra McIlroy indovinò un tiro da venticinque metri che batté imparabilmente Bugatti, uno a zero. L’Italia reagì ma con poca convinzione, così al 28’ Danny Balnchflower, il giocatore di maggior talento della selezione verde, innescò con un lungo lancio Cush che a tu per tu con Bugatti segnò il due a zero in contropiede, un vero e proprio contrappasso per la patria del gioco di rimessa! Sul finire del primo tempo Pivatelli ebbe l’occasione per riaprire i giochi ma Uprichard si superò con una grande parata di puro istinto. Nel secondo tempo l’Italia si buttò avanti all’arma bianca, lo stopper Ferrario, continuamente malmenato dagli attaccanti in maglia verde, stazionava ormai stabilmente in avanti, il portiere Bugatti dovette sbrogliare un paio di contropiedi con uscite spericolate e al 56’ Da Costa da pochi passi, sfruttando un errore di Uprichard, segnò la rete della speranza. Gli attacchi azzurri però continuarono ad essere sporadici e confusionari e eccetto qualche mischia, problemi per la porta irlandese non arrivarono. Poi ci si mise di mezzo l’arbitro Zsolt che cacciò Ghiggia dal campo al 69’ per un calcione (forse involontario) rifilato al terzino sinistro McMichael, suo angelo custode. Grandi polemiche in campo ma questo episodio segnò il sipario sul match: l’Irlanda in superiorità numerica riprese a dominare e questa volta il fischietto magiaro compensò l’espulsione negando un rigore solare agli irlandesi ed annullando per fuorigioco un gol al centravanti Simpson. Finì così in modo inglorioso un match storico che segnò il punto più basso ed infausto della gloriosa storia della nostra Nazionale.

Un’occasione fallita da Ghiggia