Con la strage di Avola, per la prima volta dopo l’avvio della stagione dei governi di centrosinistra, la polizia uccide dei lavoratori durante uno sciopero.

Uno di essi si chiama Giuseppe Scibilia, 47 anni, l’altro Angelo Sigona di 25. Era il 1968.

In quell’anno, l’Italia aveva mostrato voglia di cambiamento, di lasciarsi alle spalle il centrismo del decennio precedente, che aveva portato ricchezza per alcuni e diseguaglianze per tutti gli altri.

Troppe classi sociali chiedono risposte, per troppi anni inevase: onne, studenti, metalmeccanici, lavoratori, sindacati.

L’assenza di risposte scatenerà la violenza, di destra e di sinistra: banche, piazze, comizi, treni, giornalisti, politici, imprenditori, forze dell’ordine. Tutto ciò che era simbolo del nemico da abbattere: la borghesia e la società borghese. Di una Italia diversa, in cui la tensione, quella per i diritti sociali, si tagliava a fette.

Lavoratori, allora. Sindacati, dunque. Non a caso, perché in quegli anni si lottava, si scioperava, nelle grandi fabbriche e per strada, per il rinnovo dei contratti e per la messa nera su bianco dello Statuto dei lavoratori, arrivato solo nel 1970.

Tutto ha inizio dieci giorni prima, il 25 novembre, quando i braccianti agricoli aderenti alle tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil) decidono di intraprendere una grande azione unitaria. Si trattava di ottenere un aumento del 10 per cento (cioè 300 lire) sulle paghe, ma soprattutto il riconoscimento di un elementare diritto fino ad allora negato: la parità di trattamento salariale tra addetti a uno stesso lavoro in due zone diverse di una stessa provincia.

L’Italia di 50 anni fa, infatti, era un Paese in cui si poteva ancora morire battendosi non per equiparare i salari di Avola a quelli di Milano, ma per ottenere che il bracciante di Avola abbia un salario non inferiore a quello del bracciante di Lentini, entrambe in provincia di Siracusa. Ma non uguali tra loro, perché quella provincia era divisa in due zone agricole: la prima, denominata A, comprendeva i Comuni della zona nord, quelli più ricchi; la B, comprendeva invece quelli dell’area meridionale, i più poveri.

Nelle due zone erano applicati differenti orari di lavoro (7 ore mezza contro 8) e differenti salari (3.480 lire al giorno contro 3.110). La lotta dei braccianti poneva, quindi, una elementare rivendicazione egualitaria. Le richieste, in questa zona della Sicilia, non sono affatto nuove, perché già due anni prima c’erano stati violenti scontri con le forze dell’ordine.

Ebbene, di fronte al rifiuto degli agrari di prendere contatto con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali, un numero impressionante di lavoratori agricoli, ben trentaduemila, incrociano le braccia abbandonando i “giardini” dove in quei giorni stavano maturando gli aranci. Ma ben presto, dalle piazze dei paesi, i braccianti in sciopero dilagano lungo le strade provinciali, innalzando blocchi di pietre nella speranza che le interruzioni del traffico attirino l’attenzione del governo.

E questo avviene in effetti. Ma la risposta non è quella che quell’esercito di disperati si aspettava. Lo Stato decide di intervenire usando il pugno duro, durissimo. E così, mentre un centinaio di braccianti agricoli sono intorno a uno sbarramento di pietre eretto al 20° chilometro della statale 115, poco prima del bivio per il Lido di Avola, nove camionette cariche di agenti, per complessivi novanta uomini, tutti muniti di mitra, bombe lacrimogene, elmetto d’acciaio, arrivano da Siracusa e si arrestano di fronte al blocco intimandone lo smantellamento immediato.

Ed è da questo momento in poi che inizia il dramma di una comunità. La cosiddetta strage di Avola. Da un lato ci sono i braccianti che iniziano a lanciare le pietre. Dall’altro i poliziotti che rispondono scaricando le bombe, ma il gas, invece di intossicare gli operai, investe, trasportato dal vento, gli stessi poliziotti i quali vengono contemporaneamente respinti da una seconda bordata di pietre, anche perché nel frattempo accorrono contadini di altri Comuni vicini.

Loro, gli uomini in divisa, perdono la testa e iniziano a sparare all’impazzata. Tanto, tantissimo. Un inferno di fuoco che durerà circa mezz’ora, tanto da raccogliere da terra più di 2 chili di bossoli.
Il problema è che al suolo ci sono anche 48 feriti, alcuni gravi, e un cadavere, quello di Angelo Sigona. Giuseppe Scibilia, invece, morirà in ospedale.

Il 1968, anno della contestazione e della presa di parola, termina nel sangue.

Ancora adesso, le famiglie delle vittime non hanno ricevuto alcun risarcimento e ancora tutta Avola attende i sapere chi fu a ordinare ai poliziotti di sparare ad altezza d’uomo.

Michele Cotugno Depalma