Un'immagine della Commemorazione dei Martiri ad Asmara, cinque anni fa (foto by Madote.com).

E’ ormai consolidata e sentita tradizione, non soltanto in Eritrea ma anche fra gli eritrei della “Diaspora” (sparsi in vari paesi del mondo, a cominciare dal nostro, passando per il resto dell’Europa al Nord America, ma non solo), commemorare ogni anno i numerosi combattenti che diedero la loro vita per garantire un futuro di libertà alla loro patria, e quindi ai loro compatrioti, alle loro famiglie e ai loro figli. Questa data cade il 20 giugno, dunque a breve distanza da altri festeggiamenti nazionali importanti come, prima di tutto, quello della proclamazione dell’Indipendenza o, ancora, relativi ad altre fondamentali e vittoriose fasi del trentennale conflitto di liberazione dal dominio etiopico (iniziato nel 1961 e conclusosi trionfalmente nel 1991, e quindi ratificato dal plebiscito del 1993).

Certo, il 1961 fu soprattutto l’inizio della lotta armata contro la dominazione militare e poliziesca del regime etiopico negussita, che aveva ormai completamente privato l’Eritrea della sua residua autonomia (inizialmente era stata confederata all’Etiopia come Stato teoricamente libero ed associato, con un proprio parlamento, partiti politici e sindacati, e progressivamente svuotata delle sue istituzioni e della propria autonomia economica fino ad esser semplicemente resa, nel 1958-1959, quattordicesima provincia dell’Impero). Il fallimento della lotta politica per salvaguardare l’autonomia e la sopravvivenza delle istituzioni eritree, ufficializzato dalle pesanti repressioni poliziesche avvenute proprio all’indomani del 1958, aveva reso la lotta armata come unica opzione a quel punto realisticamente praticabile. Dunque, molti martiri eritrei caddero ben prima di quel 1961, che diede ufficialmente il via proprio alla Guerra di Liberazione.

Ad unirsi a quella lotta furono in molti eritrei, e tra di loro non mancavano anche tante persone che magari in precedenza non erano state proprio totalmente diffidenti o prevenute nei confronti della federazione con la monarchia etiopica, ma che poi a causa dello svolgimento dei fatti s’erano dovute ricredere. Come sappiamo, fu una lotta molto dura, che conobbe numerosi cambiamenti di fronte e d’alleanze, a cominciare dalla stessa Etiopia dove, a metà degli Anni ’70, l’autocrazia del Negus venne soppiantata dal DERG, governo ben presto dichiaratosi filosovietico come reazione a quello precedente vicino invece a Stati Uniti, Inghilterra ed Israele. Per tale motivo i combattenti eritrei si ritrovarono a doversi confrontare militarmente, di volta in volta, con regimi e consiglieri militari di diversa nazionalità, in circostanze che spesso sembravano tanto avverse da portarli ad un’imminente resa. Fu per esempio così in occasione della famigerata “Operazione Stella Rossa”, scatenata dal DERG etiopico, dalla Marina Sovietica e da consiglieri militari russi e cubani, che tuttavia fallì proprio grazie alle capacità tattiche e strategiche degli eritrei del FPLE. Il suo fallimento aprì proprio la strada ad una progressiva rimonta che portò quindi all’agognato traguardo del 1991-1993.

Andrebbe detto, a tal proposito, come oltre il 30% dei combattenti eritrei fossero donne. La causa femminile era strettamente correlata alla causa dell’indipendenza eritrea, al punto che non si sarebbe potuto praticamente concepire l’una in assenza dell’altra e viceversa. Questo aspetto, che è assolutamente di estrema importanza, è stato anche uno dei segreti della superiorità manifestata dagli eritrei nella loro lotta contro il nemico, in termini di tattica, di strategia, di capacità di sopportazione e “resilienza” (termine molto caro a tanti amici eritrei e che è quindi bene, in quest’occasione, nominare, anche perché ben s’applica pure all’esistenza e alla condotta storica e politica che l’Eritrea indipendente ha tenuto dal 1991-1993 sino ad oggi). L’Eritrea deve alla donna, madre, sorella, figlia, molto di sé, tutto di sé. Anche il trattamento materno riservato ai nemici catturati lo può testimoniare, ed è un fatto anch’esso meritevole d’essere ricordato.

Si stima che le vittime di quel trentennale conflitto siano state non meno di 65mila, a cui devono aggiungersi più di diecimila rimasti gravemente feriti, con menomazioni ed invalidità permanenti. Non è certamente stato un tributo di poco conto versato sull’altare della libertà; anche perché, pochi anni dopo, fra il 1998 ed il 2000, un nuovo e grave conflitto ha di nuovo contrapposto l’Eritrea all’Etiopia. In questo caso non erano più il Negus o il DERG ad attaccare gli eritrei, ma un governo in quel momento presentato dai più nel mondo come democratico e progressista, stimato e sostenuto dall’Occidente: quello del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, guidato dal premier Meles Zenawi. La conclusione di quella guerra non aprì un periodo di vera e propria pace (spesso s’è parlato di una situazione di “né guerra, né pace”), in primo luogo perché il governo etiopico non volle rispettare gli Accordi di Algeri del 2000, che pure aveva sottoscritto e che almeno ufficialmente ponevano termine a quel conflitto. Nuove scaramucce, infatti, si registrarono anche negli anni seguenti. La caduta di quel governo, rimpiazzato nel 2018 da quello dell’attuale premier etiopico Abiy Ahmed, ha finalmente permesso di superare quel grave, annoso ostacolo finale.

Oggi i due paesi si possono così ritrovare fraternamente uniti, com’è giusto che sia, da tanti aspetti etnici, culturali e religiosi che li accomunano, così come da importanti cause relative allo status della regione del Corno d’Africa, e da una lunga storia alle loro spalle che spesso è stata condivisa non soltanto in senso negativo ma anche e soprattutto in senso positivo (si pensi a cosa ci viene raccontato dalla ricchissima archeologia locale). Tutto questo insieme di fattori li porta a trovarsi insieme anche con gli altri paesi fratelli, a cominciare dalla Somalia e da Gibuti, senza dimenticare il Sudan, che ha anch’esso attraversato negli ultimissimi mesi importanti cambiamenti interni. Inoltre, tutti questi paesi hanno davanti a sé sfide importanti, quale quella della guerra alle invasioni delle locuste o al contagio da Covid-19, problemi che vanno ad aggiungersi ad altri su cui è bene lavorare insieme puntando sempre di più su un lavoro congiunto, che abbia come suo obiettivo finale l’integrazione regionale. Si pensi, per esempio, alla stabilità politica, allo sviluppo o all’incremento di certe forme di produzione alimentare, di determinati settori economici e produttivi, di servizi sociali, ecc. Sono tutti traguardi di sicuro molto impegnativi, ma che è pure molto bello poter finalmente affrontare e raggiungere lavorando tutti insieme.

In questo senso, una giornata estremamente importante come quella dedicata ai Martiri diventa anche un momento di meritata e fondamentale riflessione per tutte le famiglie eritree, di raccoglimento ma anche di spirito patrio, e testimonia come da quel sacrificio siano idealmente nate tante sorgenti d’acqua che alimentano di speranze e di certezze il futuro non soltanto dell’Eritrea, ma persino dell’intero Corno d’Africa.

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Nato a Pisa nel 1983. Direttore Editoriale de l'Opinione Pubblica. Esperto di politica internazionale e autore di numerosi saggi.