«Dalla mezzanotte di oggi, tacciono le armi si tutti i fronti. Agli ordini del Grande Ammiraglio (Karl Doenitz, succeduto a Hitler il 30 aprile, n. d. r.) la Wermacht ha cessato una battaglia divenuta senza speranza. Con ciò, una lotta eroica, durata sei anni è giunta alla fine. Una lotta che ci portato grandi vittorie ma anche pesanti sconfitte. L’esercito tedesco è stato vinto con onore da una schiacciante superiorità».
Con questa parole, iniziava, il 9 maggio 1945, l’ultima pagina del Kriegstagebuch des Oberkommandos des Wermacht , cioè il Diario di guerra ufficiale del Comando Supremo delle Forze Armate tedesche che ha registrato giorno per giorno, dal 1 settembre 1939 al 9 maggio 1945, tramite brevi annotazioni per ogni settore, l’andamento della guerra su tutti i fronti su cui combatté la Wermacht.
Il 9 maggio, era sta infatti firmata la resa incondizionata dell’esercito tedesco. Era la seconda capitolazione: poiché i sovietici, che ci tenevano, imposero che la prima cerimonia, avvenuta in Francia, al Quartier Generale Alleato di Reims il 7 maggio, si replicasse, con la maggiore solennità possibile, al loro Quartier Generale, nel sobborgo berlinese di Karlshorst. Cosi, settantaquattro anni fa, finiva la II Guerra Mondiale in Europa.
Piccola, piccolissima (di fronte all’immane tragedia) curiosità: l’entrata in vigore effettiva del “cessate in fuoco” fu in realtà anteriore all’orario della firma ufficiale della capitolazione: mezzanotte e 16 minuti di quello stesso 9 maggio 1945. Come appunto riporta scrupolosamente il Kriegstagebuch.
La guerra finiva solo in Europa, però. Nel Pacifico, i giapponesi resistevano ancora, e l’avrebbero fatto fino al 16 agosto, con l’epica selvaggia di Okinawa e Jiwo Jima.
Non che l’ultima battaglia europea, quella di Berlino, fosse stata meno selvaggia e meno (tragicamente e sanguinosamente) epica. Qui viene rievocata seguendo appunto le note del Kriegstagebuch: un racconto certo unico non solo per il suo valore documentario, ma anche per il suo essere narrazione “in diretta”, al tempo stesso “burocratica” e drammatica del suo svolgimento.
L’offensiva sovietica iniziò il 16 aprile. Così Cornelyus Ryan ne ricorda l’avvio, dal lato russo: «Zukov (il comandate in capo dell’esercito sovietico in Germania, l’eroe di Stalingrado, n.d.r.), gettò un’occhiata all’orologio, guardò di nuovo attraverso il binocolo e disse: “E’ l’ora compagni, è l’ora”». Erano le 4 del mattino. Un minuto dopo, «più di 20.000 cannoni di ogni calibro aprirono il fuoco sulle linee tedesche, al di là del fiume Oder (che oggi segna il confine tra Germania e Polonia). Il frastuono era talmente forte che gli artiglieri perdevano sangue dalle orecchie». Prima ancora che l’uragano di fuoco terminasse, le truppe sovietiche si lanciarono nelle acque del fiume, «gridando e urlando come selvaggi…Tra le loro file c’erano reparti che avevano resistito a Stalingrado, a Leningrado, davanti a Mosca … che per raggiungere Berlino avevano combattuto per mezzo continente. C’erano soldati che avevano visto le loro città e i loro villaggi cancellati di cannoni tedeschi, le messi bruciate, le famiglie assassinate dai nazisti. I tedeschi non avevano lasciato loro nulla in patria cui ritornare: e perciò non potevano fare altro che andare avanti con furia selvaggia».
Il Kriegstagebuch però, non pare accorgersi che si tratta dell’ “inizio della fine”, poiché fino al 18 parla “solo” di «pesanti attacchi» su quel fronte.
La resistenza tedesca è non meno selvaggia e disperata. Basti solo osservare quanto siano enormi le perdite russe nei primi giorni dell’offensiva, perdite che il Kriegstagebuch riporta dettagliatamente fino al 19: in soli quattro giorni, i russi perdono quasi 700 carri armati. Fu insomma già un mezzo miracolo che di fronte a una superiorità sovietica di uomini e di mezzi schiacciante, solo il 23 aprile l’Armata Rossa riusciva ad arrivare ai sobborghi di Berlino, a 50 chilometri circa da dove era iniziato l’attacco.
Quel giorno, iniziava la battaglia per Berlino: «la battaglia per la capitale del Reich divampa in tutta la sua intensità. A sud della città, le nostre truppe resistono a pesanti attacchi delle forze corazzate bolsceviche».
Il 24, il Kriegstagebuch è costretto ad ammettere che «malgrado la tenace, aspra resistenza dei nostri soldati e delle unità del Volkssturm», i russi sono alle porte di Potsdam e della periferia sud e est di Berlino;
Dal 25, la battaglia diventa quartiere per quartiere, strada per strada, come registra puntualmente il Diario:
«Nella battaglia per Berlino, si lotta per ogni palmo di terra. A Sud, i Sovietici sono giunti fino alla linea Babelsberg – Zehlendorf – Neukolln (cioè dentro la periferia sud di Berlino, n. d.r) . Nei quartieri a Nord e a Est infuria la battaglia strada per strada». In pratica, è una gigantesca morsa che si stringe attorno alla capitale del Reich.
Il 26 «infuriano durissimi combattimenti strada per strada» nei quartieri sudorientali più interni di Zehlendorf, Tempelhof, Siemensstadt; ovunque, «le nostre truppe oppongono una fortissima resistenza». Ciò non ha impedito ai sovietici di arrivare, lo stesso 26, fino al quartiere elegante di Charlottenburg, dove «divampa la battaglia».
Per dare un’idea di quanto le parole del Kriegstagebuch corrispondessero al vero: in sostanza, i russi avanzano inesorabilmente, certo: ma, in virtù della disperata, furibonda resistenza tedesca, alla media di soli uno – due chilometri al giorno. In certi settori, anche meno. Tra il 22 e il 24, singoli edifici, come la stazione periferica di Kopenick (a sud est), singole strade, come la Prenzlauer Allee (a nord) vengono persi, poi riconquistati, poi persi in un continuo succedersi, giorno e notte, di attacchi e contrattacchi.
Il 27 il Kriegstagebuch abbandona i toni asettici, quasi burocratici, per diventare enfatico, drammatico: «spalla a spalla, con tutto gli uomini in armi disponibili, le nostre truppe continuano una eroica lotta contro l’offensiva in massa nemica, difendendo ogni caseggiato e rigettando in molti punti indietro il nemico ». Laddove per “molti punti” quasi sempre è da intendersi appena qualche decina di metri; o un ponte, o un incrocio.
Il 28, i toni diventato davvero apocalittici: «nell’eroica lotta per la città di Berlino, si mostra ancora una volta davanti a tutto il mondo l’immagine di tutto il popolo tedesco in lotta decisiva contro il Bolscevismo». Una battaglia «grandiosa, senza eguali nella Storia».
Sempre il 28, però, il Kriegstagebuch ammette che si è all’ultima trincea: «la battaglia per il centro di Berlino è iniziata … il nemico è penetrato nella cerchia difensiva più interna, a nord-ovest a Charlottemburg, a sud in direzione dell’aeroporto di Tempelhof»; nella parte est della città, sono a meno di un chilometro dalla famosa Alexanderplatz.
Il 29 si annota che «giorno e notte infuria la fanatica battaglia casa per casa intorno al centro di Berlino. I suoi valorosi difensori sono impegnati in durissimi combattimenti contro l’incessante assalto delle masse bolsceviche». Ma «ciò nonostante, il nemico è giunto alla Potsdamer Strasse e alla Belle Alliance Strasse, dove sono in corso durissimi scontri». Cioè, due delle arterie che erano tra le più eleganti e rinomate di Berlino; e a un paio di chilometri circa, forse meno, dal bunker dove è asserragliato Hitler.
Il 30, i sovietici sono arrivati nel “Mitte”, il cuore della città: «continua incessante l’eroica lotta intorno al centro della capitale del Reich. In durissimi combattimenti strada per strada e casa per casa, il centro cittadino è difeso da tutti i reparti della Wermacht, dalla Hitler Jugend e dal Volkssturm. Un esempio luminoso dell’eroismo del soldato tedesco». Si combatte attorno alla principale stazione di Berlino, la Anhalter Banhof: cioè, a meno di un chilometro dal bunker di Hitler.
Lo stesso giorno, avviene un fatto di poco interesse per la cronaca militare, e perciò non registrato dal Kriegstagebuch , ma di grande valore simbolico, soprattutto per quel che sarebbe avvenuto nei successivi 44 anni: dopo due giorni di furiosi scontri, prima intorno all’edificio e poi dentro i saloni e i sotterranei, il Reichstag viene conquistato dai sovietici. Che non vedono l’ora di issare la bandiera rossa sull’edificio, per loro (ma non s’è mai capito il motivo), simbolo di Berlino. Mentre ancora infuriano gli scontri dentro il palazzo, alle 12.25 del 30 aprile, i soldati Egorov e Kantarija la espongono al primo piano del palazzo. Dopo un’altra mezza giornata di combattimenti, vengono espugnati gli altri piani: solo alla undici meno dieci di sera del 30 aprile la bandiera rossa viene innalzata sulla sommità della cupola.
Perciò, le celebri fotografie che hanno immortalato l’evento sono tutte “in posa”, seguenti al momento vero in cui è accaduto.
Il 1 maggio, il Diario riporta una piccola bugia. Annotando che «nel centro cittadino di Berlino, i valorosi difensori resistono contro la schiacciante supremazia Bolscevica», si sottolinea come essi siano «stretti attorno al nostro Fuhrer». A quella data, però, non potevano più esserlo perché Hitler s’era suicidato il giorno prima. Notizia che il Diario dà solo il 2 maggio, ma tacendo come fosse morto: «Come il più eroico e coraggioso dei difensori della Capitale del Reich, il Fuhrer è caduto. Animato dalla volontà di salvare il suo popolo e l’Europa dal Bolscevismo, ha sacrificato la sua vita. Questo simbolo di “fedeltà fino alla morte” è impegnativo per tutti i combattenti».
Oramai, però, resta ben poco da difendere: sempre al 2 maggio, il Diario riferisce che sono rimasti «i resti» di «singole, sparse unità» a difendere, come si annotava il 3, «isolati gruppi di caseggiati» e le ultime zone di Berlino non ancora occupate dai russi: cioè parte del quartiere governativo, alcune zone intorno alla Porta di Brandemburgo.
Nello stesso giorno, (ma il Kriegstagebuch non riporta la notizia), le truppe sovietiche raggiungono la Cancelleria del Reich e il bunker sottostante, dove trovano i resti carbonizzate di Hitler e Eva Braun. Oltre a quelli, riconoscibili, di Goebbels e la moglie. Singolare coincidenza: il soldato russo che issa la bandiera rossa sulla Cancelleria, ha lo stesso nome di chi, nel 1991, la farà ammainare dal Cremlino: Gorbaciov.
Il 4 maggio, cessano i combattimenti. Il comandante della piazza, generale Weidling, già il 1 aveva offerto la resa della città, firmata appunto nella notte tra il 3 e il 4. Annota il Diario: «la battaglia per la capitale del Reich è finita. In una lotta eroica e senza eguali, tutte le unità dell’Esercito, del Volkssturm hanno onorato il loro giuramento di fedeltà alla bandiera, resistendo fino all’ultimo respiro, e dando uno dei più alti esempi di eroismo del soldato tedesco».
Lo stesso 4 maggio, le forze tedesche combattenti contro gli angloamericani nel resto della Germania, in Olanda, Norvegia, Danimarca si arrendevano. Per il Kriegstagebuch, era già, in sostanza, la fine: «questo “cessate il fuoco” giunge dopo sei anni di una gloriosa battaglia, su ordine del Grande Ammiraglio Doenitz, il quale ha ritenuto insensato proseguire una guerra contro le potenze occidentali, oramai persa, la cui continuazione condurrebbe solo all’inutile spargimento di altro sangue tedesco». La guerra, insomma, continuò per quattro giorni solo contro i russi, intorno Praga e a quel che restava del Reich, per un motivo ben preciso: «continua però la resistenza contro i sovietici al fine di salvare e proteggere quanti più tedeschi possibile dal terrore bolscevico».
Il 9, il Krigestagebuch annotava l’ultima comunicazione, per l’esercito tedesco ma non solo: «dalle ore 0.00 del 9 maggio 1945 deve cessare, in ogni luogo oggetto di combattimenti, qualsiasi attività ostile contro tutti i precedenti avversari, da parte di tutte le unità della Wermacht e di ogni altra organizzazione armata o di singole persone. Questa comunicazione è da ritenersi un ordine per chiunque».
Poche righe dopo, e dopo l’ultimo resoconto della situazione militare, il Kriegstagebuch si chiudeva con queste parole: «In questa ora tragica, La Wermacht volge il suo pensiero ai suoi camerati caduti davanti al nemico. Essi ci obbligano ad una incondizionata fedeltà, obbedienza e disciplina verso la patria ferita e sanguinante».
E’ noto che la Storia non si fa con la morale. Ma non si può non notare che, se in queste parole vi era retorica, era assolutamente giustificata dai fatti. Chiamare “eroe” il soldato tedesco di Berlino significa constatare un’evidenza, non assolverlo dal fatto che aveva combattuto dalla parte sbagliata, per una “causa” peggio che sbagliata: orrenda. Che ha portato a 60 milioni di morti, di cui poco più di un terzo, circa 20 milioni, russi.
Ps: formalmente, poiché quelle del 7 e 9 maggio sono state solo capitolazioni militari, e poiché un trattato di pace con la Germania non è mai stato firmato, la II Guerra Mondiale non è ancora finita…
Tre curiosità sull’immagine in evidenza: la data riportata è l’8 maggio. Ma poiché la capitolazione, secondo l’art. 2, entrava in vigore un minuto dopo la mezzanotte, il 9 maggio viene considerato la data della fine della guerra in Europa; la capitolazione fu firmata in triplice copia: inglese, russo, tedesco. E fu una piccola-grande scortesia per il rappresentante francese (la firma in basso a sinistra) che, essendo formalmente di pari livello rispetto agli altri tre alleati (USA, Gran Bretagna, URSS) avrebbe potuto esigere che fosse redatta una copia in francese; la terza e più significativa: mentre il firmatario russo fu il leggendario maresciallo Zukhov, ossia il comandante in capo dell’Armata Rossa, i comandati in capo inglese e americano, cioè Montgomery e Eisenhower, preferirono mandare dei rappresentanti, e nemmeno dei più famosi tra i loro generali. Era già iniziata la Guerra Fredda.
Volendo saperne di più:
Anthony Beevor, Berlino 1945. La caduta, Milano, BUR Rizzoli; Cornelyus Ryan, L’ultima battaglia, BUR –Rizzoli