L’11 Settembre 2001, diciassette anni fa, quattro aerei di linea dirottati compirono in terra statunitense una delle più grandi stragi dell’era contemporanea.
Il mattino di quel giorno due aerei Boeing 767 si schiantarono contro le due torri, dette Twin Towers, del World Trade Center, conglomerato edile di Manhattan che ospitava uffici, aziende e centri del commercio per un totale di 50.000 tra impiegati, lavoratori e dirigenti e un qualcosa come 200.000 visite giornaliere. Lo schianto dei due aerei commerciali, provocò forti incendi sino al crollo dell’intera struttura delle due torri.
Sempre quell’11 settembre presero parte all’attentato altri due aerei dirottati. Il primo di questi andò a schiantarsi al Pentagono, situato in Virginia, provocando circa 300 morti, il secondo tentò di raggiungere la Casa Bianca a Washington DC senza riuscirci, schiantandosi in Pennsylvania.
Alla fine saranno circa 3000 le vittime e migliaia i feriti. Gli attentatori furono contati in 19, riconducibili all’organizzazione terroristica di Al Qaeda, la maggior parte dei quali provenienti dall’Arabia Saudita.
Un casus belli che il 7 ottobre di quell’anno consentì a George W. Bush di portare in guerra la NATO contro il regime dei Talebani in Afghanistan, ritenuto responsabile dell’accaduto. In realtà fu proprio durante l’invasione sovietica di Kabul che l’organizzazione terroristica cominciò a formarsi per mano del facoltoso saudita Osama bin Laden, in un contesto nel quale gli Stati Uniti e i paesi arabi del Golfo sostennero e finanziarono i mujaheddin in chiave anti-sovietica, sino all’instaurazione del regime islamista in Afghanistan. Da allora nonostante il regime dei talebani sia stato sconfitto e un nuovo governo democratico sia stato eletto, la guerra degli Usa in Afghanistan è ancora in corso con un contingente Usa e NATO presente nella regione in maniera cospicua.
Tuttavia gli attentati dell’11 settembre e le loro conseguenze hanno lasciato e lasciano ancora qualche perplessità. Innanzitutto sulla reazione americana di dichiarare guerra all’Afghanistan (e poi addirittura all’Iraq baathista di Saddam Hussein), quando forse ieri come oggi un isolamento delle facoltose petromonarchie del Golfo e la rinuncia ai loro emolumenti sarebbe stata ed è la medicina migliore per il terrorismo islamico (si guardi ai finanziamenti ricevuti da Hillary Clinton per le elezioni presidenziali che hanno eletto Donald Trump).
In seconda battuta le dinamiche e le motivazioni dell’attentato dell’11 settembre, che, al di là di qualche eccessiva interpretazione complottistica, non hanno mai convinto sino in fondo. È dura pensare che uno come Osama bin Laden avesse davvero qualche interesse a colpire uno stato come gli Usa che indirettamente ne avevano favorito l’ascesa, mentre una vera e propria indagine sugli attentatori (al netto di una affrettata “versione ufficiale”) non è mai stata condotta sino in fondo. Senza contare il fatto che trovare qualcuno addestrato a pilotare aerei complessi come dei Boing non dovrebbe essere così semplice come ci è stato raccontato sin dal giorno dell’attentato terroristico.
Un’altra “stranezza” è costituita dal fatto che il governo americano guidato dal Presidente G. W. Bush, piuttosto che inscenare una crisi diplomatica con i sauditi, paese di provenienza degli attentatori dell’11 settembre condusse le sue critiche verso un altro alleato nel sostegno ai jihadisti in Afghanistan: il Pakistan. Segno che al di là di ogni ipotesi sull’attentato sul quale ormai non sapremo mai la verità, l’amministrazione Bush jr. ha sacrificato la ricerca della verità sull’accaduto ai propri interessi geopolitici: la voglia di sistemare una regione incontrollabile come l’Afghanistan dei talebani e di far fuori in fretta un personaggio scomodo come Saddam Hussein ha prevalso come al solito sulla ricerca della giustizia.
Una vera e propria ingiustizia che da diciassette anni, da quell’11 settembre 2001, si ripete contro le vittime e i loro familiari.
Gli Usa e il Mondo oggi
Oggi il (New) World Trade Center è stato ricostruito e inaugurato, ma la lotta al terrorismo compiuta dagli USA continua a non essere efficace e ad assecondare i propri interessi alla sicurezza e agli equilibri del mondo contemporaneo. Se l’era Obama è riuscita a peggiorare la situazione rispetto al suo predecessore, manovrando le rivolte islamiste in Libia, in Siria, in Egitto, in Tunisia e in mezzo mondo islamico, l’era Trump non sembra aver portato significativi miglioramenti.
A differenza dell’era neocon tuttavia gli Usa devono fare i conti con una politica internazionale nella quale sembra che il periodo dell’egemonia incontrastata della superpotenza statunitense figlia degli anni ’90 sia un capitolo definitivamente chiuso. Un altro se ne è aperto e narra di un mondo multipolare dove oltre agli Usa sono diversi i soggetti che rappresentano una realtà geopolitica che vada oltre i propri confini territoriali, e che sono ormai in grado di equilibrare le dinamiche internazionali. Soprattutto attraverso la grande intelligenza strategica di leader come Xi Jinping (e prima di lui Hu Jintao) e Vladimir Putin, che sono riusciti a costruire una rete di alleanze, di rapporti economici e politici alternativa a quella occidentale, senza colpo ferire.
Trump nonostante le promesse elettorali dove presagiva un cambio di rotta ideologico di Washington fatto di isolamento e collaborazione su temi come la Sicurezza Internazionale, ha provato da presidente a vincere la partita in Siria, dopo aver quasi elogiato Assad quando era candidato alla presidenza. Ma ha dovuto desistere quando ormai è stato chiaro che l’iniziativa russa partita nel settembre 2015 in Siria aveva lasciato pochi margini per un’offensiva contro il presidente baathista, sia a livello di opinione pubblica (la gente ha capito che con l’islam fondamentalista e il terrorismo non si scherza) sulla quale le fake news non attecchiscono più, sia per le vittorie ottenute sul campo dall’esercito di Assad, l’Iran e la Russia (insieme alle squadre di Hezbollah) contro ribelli e terroristi.
Il presidente Donald Trump avversato da parte delle istituzioni americane e da parte del suo partito dovrà affrontare di qui a poco l’esame elettorale del mid-term, dove potrà giocarsi la sua partita nei confronti non solo del paese, ma anche all’interno del GOP. Una vittoria dei Repubblicani significherebbe il successo di Trump non solo a livello popolare, ma anche come leadership. Un passaggio importante che potrebbe rivelarsi tanto un successo quanto un totale fallimento, reiterando i problemi avuti dal tycoon in questi due anni di presidenza.
Soprattutto in politica internazionale Trump ha dovuto utilizzare il bilancino per accontentare sia i falchi che i più populisti. Da un lato continua a minacciare l’Iran ed è fautore di un cambio di rotta nei confronti di Israele, diventato di nuovo un alleato di primo piano per il presidente repubblicano. Dall’altro Trump ha anche perseguito una politica di distensione con la Corea del Nord dei Kim (storica), la Cina di Xi e per certi versi con il Cremlino.