Il calendario segna venerdì 29 luglio 1983. Sono le 8.05. Il giudice istruttore Rocco Chinnici, uno dei primissimi a capire che era arrivato il tempo di attaccare la mafia frontalmente e di concentrare gli omicidi mafiosi tutti insieme magari creando un’apposita squadra, saluta il portinaio del condominio in cui abita, in via Federico Pipitone a Palermo.
Esce di casa, e in quello stesso istante un uomo preme un pulsante. Un boato. Un botto terrificante e all’improvviso ecco l’inferno. Sirene spiegate, ambulanze, urla, macerie, vetri e mura frantumate, un immenso cratere profondo e nero ha preso il posto della macchina del giudice. Subito si capisce che la mafia ha colpito ancora, ma stavolta non con i soliti kalashnikov e con le consolidate modalità, ma con un’autobomba. La prima di una lunga serie. Oltre a Rocco Chinnici, quell’esplosione si porta via i due agenti della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio del condominio Stefano Li Sacchi.
Chinnici è uno dei tanti simboli della Palermo difficilissima di quegli anni. La Mafia si è lasciata alle spalle la seconda guerra intestina, e alla cupola ora ci sono Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e i loro adepti. E anche il modo di fare cambia, perché ora lo Stato è il primo nemico da eliminare. Troppi i cadaveri eccellenti per le strade del capoluogo siciliano tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80: Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella (fratello del Presidente della Repubblica, Sergio), Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, sino a Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Ma la mattanza e la ferocia dei corleonesi era soltanto agli inizi. Perché Chinnici salta in aria? Aveva dichiarato apertamente guerra alla mafia, il magistrato italiano nato a Misilmeri nel 1925. Chinnici aveva una mente decisamente più perspicace e galoppante degli altri, era presto arrivato alla conclusione che il potere mafioso faceva affari con la politica, le banche, l’alta finanza, e che troppi signorotti potenti proteggevano i soldi e i capifamiglia in generale, gestendone spesso i traffici oltreoceano.
Inoltre aveva compreso come gran parte degli omicidi di quel periodo si decideva all’Ucciardone, il carcere di Palermo dove i mafiosi vivevano come se fossero in un Grand Hotel e non affatto in assoluto isolamento, ma anzi con eccessivi privilegi.
Per tutto questo, allora, e dopo l’omicidio al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, decide di centralizzare tutte le inchieste degli omicidi mafiosi creando una squadra ad hoc, conosciuta con il nome di “Pool antimafia”. L’equipe era composta da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giooacchino Natoli. Tutti magistrati in rampa di lancio ma non per questo impreparati. “Chinnici era convinto – scrive di lui Paolo Borsellino – che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento”.
Nelle sue indagini, inizia a mettere pressioni ai due “intoccabili” cugini Nino e Ignazio Salvo, due imprenditori italiani legati mani e piedi a Cosa Nostra, e dai primi anni ’60 riscossori delle tasse a Palermo grazie all’intercessione di Salvo Lima, esponente di spicco della Democrazia cristiana in Sicilia e anche lui legato alla mafia.
Chinnici si è spinto oltre, allora. Ha fatto il passo più lungo della gamba. E il 29 luglio 1983, 34 anni fa, salta in aria, ma il suo progetto viene portato avanti da Antonino Caponnetto, che ne prende il posto alla guida del Pool antimafia, e dagli altri magistrati.
Il processo per l’omicidio ha individuato come mandanti, proprio i cugini Salvo, e si è concluso con 12 condanne all’ergastolo e quattro condanne a 18 anni di reclusione per alcuni fra i più importanti affiliati di Cosa Nostra.
È ricordato ogni anno il 21 marzo nella Giornata della memoria e dell’impegno di “Libera”, la rete di associazioni contro le mafie, che in questa data legge il lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi.
Quando lo Stato è debole prevale il Male dei criminali.
Non credete fosse meglio quando Mussolini inviò il Prefetto Mori con poteri assoluti?
Come possiamo tollerare di vivere in un Paese in mano per almeno il 30% della criminalità organizzata?