Dall’Audace San Michele all’Inter

Un altro pezzo della Grande Inter ha iniziato il viaggio verso l’aldilà: Mario Corso, uno dei simboli dello squadrone allenato da Helenio Herrera, è spirato ieri mattina all’età di 78 anni a Milano, la sua città adottiva. Veronese di San Michele Extra, dove nacque il 25 agosto 1941, Mariolino inizia a giocare nell’Azzurra Verona, società del rione di San Giovanni in Valle, per poi trasferirsi proprio all’Audace San Michele. A nemmeno diciassette anni Corso viene acquistato dall’Inter assieme ai compagni di squadra Da Pozzo e Guglielmoni per la cifra di 9 milioni di Lire. Guglielmoni sarà un onesto mestierante delle serie minori, Da Pozzo un buon portiere di bassa Serie A (è stato per tanti anni detentore del record di imbattibilità in Serie A con 791 minuti senza prendere gol), Corso semplicemente una leggenda del club nerazzurro, il “piede sinistro di Dio”.

Il predestinato (1958-60)

Che Corso fosse un predestinato lo si capì dal suo esordio con la “pesante” casacca nerazzurra: il 13 luglio 1958 infatti debutta a Como in un match di Coppa Italia siglando pure al minuto numero ottantatré il 2 a 0 dell’Inter a 16 anni e 322 giorni. Il 23 novembre dello stesso anno esordisce in Serie A, nell’incontro vinto per 5-1 contro la Sampdoria mentre sette giorni più tardi, a 17 anni, 3 mesi e 5 giorni giunge il suo primo gol in assoluto in Serie A contro il Bologna.

Mariolino come caratteristiche tecniche sarebbe un numero dieci puro, purissimo: tecnica sopraffina, fantasia, visione del gioco negli ultimi venti metri. Però il ruolo di trequartista (allora si diceva mezzala di punta) era occupato dallo svedese Lindskog. Così l’allenatore Campatelli, vecchia bandiera interista, per farlo giocare titolare lo confina sull’out mancino nel ruolo di ala sinistra. L’irriverente veneto, che si fa subito notare da pubblico e critica perché gioca con i calzettoni abbassati in onore del suo idolo Omar Sivori, non ha la costanza ed il passo per giocare da ala.

Una figurina Panini di un giovanissimo Mario Corso (1960-61).

Arriva Herrera (1960-62)

Nel campionato 1960/61 arriva sulla panchina un personaggio destinato a cambiare per sempre la storia dell’Inter, fino ad allora considerata una sorta di eterna incompiuta del calcio italiano: Helenio Herrera, tecnico ispano-francese fautore di un calcio molto rapido ed aggressivo, fatto di intensità e di un primordiale pressing (il celebre “taca la bala”) secondo i dettami dell’école française. Normale che un allenatore che predilige un calcio di questo tipo, così insolito a queste latitudini, non sappia cosa farci di un giocatore così talentuoso ma incostante e indolente, poco avvezzo alle fatiche ed al sacrificio. Don Helenio prova così a spostare Corso sulla trequarti tagliando Lindskog, nel ruolo più congeniale a Corso ma il feeling tra i due non nasce: Corso ed Herrera parlano due linguaggi calcistici troppo diversi.

Nell’estate del 1961 Herrera pretende la cessione di Corso (non sarà la prima volta, Angelo Moratti però non ne vuole sapere) e l’acquisto del suo pupillo Luisito Suarez, che arriva a Milano a suon di milioni. Corso così torna sull’out mancino a lui sgradito anche se nel frattempo ha guadagnato il posto in Nazionale. Celebre in questo periodo un gol su punizione in un match contro Israele a Tel Aviv con la palla calciata dolcemente a “foglia morta” ad aggirare la barriera. Contrariamente a quello che dice la critica questa tecnica nel calciare le punizioni non fu inventata da Corso bensì da un’altra grandissima leggenda nerazzurra: Giuseppe Meazza, la “foglia morta” sarà poi perfezionata in Sudamerica dal celebre regista della Fluminense e del Brasile campione nel 1958 e nel 1962 Didi (folha seca). Mariolino Corso resta comunque uno dei più grandi specialisti in fatto di punizioni “di precisione” di tutti i tempi.

Le giocate di Mario Corso

L’Inter diventa Grande (1962-1970)

La svolta nella carriera dell’Inter e di Corso arriva nella stagione 1962/63 quando Herrera, capendo che non può disfarsi di corso in nessuna maniera perché protetto dal suo datore di lavoro, si prende il grosso azzardo di inserire come terzino di fascia sinistra un ex attaccante delle giovanili dal fisico statuario: Giacinto Facchetti. In questo modo il ragazzo prodigio di Treviglio può arare in modo innovativo la corsia mancina permettendo a Corso, ala sinistra solo nominale, di dedicarsi a rifornire l’attacco, supportato alle spalle da un regista di classe internazionale come Suarez. L’asse mancino sarà proprio uno dei segreti di una squadra che sta per diventare leggendaria.

Adesso l’Inter è diventata veramente Grande: tre scudetti, due Coppe Campioni e Coppe Intercontinentali consecutive, mai una squadra italiana è stata così dominante dai tempi del Grande Torino. Corso è un giocatore fondamentale dello squadrone nerazzurro, però è sempre discusso e non solo dal suo allenatore che però sa benissimo che la sua classe, seppur estemporanea, gli può togliere sempre molte castagne dal fuoco. Gianni Brera, giornalista fautore della causa difensivista, sostiene che “Corso è il participio passato del verbo correre” e forse non aveva tutti i torti. È infatti un luogo comune sostenere che nel calcio degli Anni Sessanta non si corresse: le partite anche a quei tempi erano contraddistinte da grande intensità ed atletismo, la differenza sta nel fatto che allora le squadre erano molto più “lunghe” e la suddivisione dei ruoli molto più rigida e canonica. Nel calcio di oggi tutti devono correre perché le squadre son molto più “corte” ma nel calcio di allora c’era chi correva e chi poteva permettersi di giocare da fermo come Corso.

Ecco forse un grossissimo limite di questo campione era la sua grande indolenza e discontinuità: avendo osservato più di qualche partita della Grande Inter Corso veramente “camminava” in campo: era un giocatore che si muoveva solo se aveva la palla tra i piedi e che se perdeva il boccione non faceva nulla per recuperarlo. Però, si sa, il talento è una cosa preziosa che quando sgorga, deve essere puro e cristallino e Mario Corso è stato senza ombra di dubbio uno dei più grandi talenti puri espressi dal calcio italiano, un calciatore che con il suo mancino poteva davvero fare qualsiasi cosa. Pelé avrebbe fatto carte false per vedere giocare il veronese con la maglia verdeoro del suo Brasile.

Mario Corso: un giocatore che ha fatto sempre discutere!

Un difficile rapporto con l’azzurro (1961-71)

Più anonimo e controverso il suo rapporto con la maglia azzurra con la quale Corso ha fatto solo in parte vedere tutto la sua classe. Nonostante in un decennio (1961-71) abbia vestito ventitré volte la casacca azzurra, Corso non ha mai giocato un mondiale e nemmeno un europeo: è stato infatti escluso dalla rosa dei convocati per le deludente spedizioni in Cile nel 1962 ed in Inghilterra nel 1966 ma anche per i vittoriosi europei casalinghi del 1968. Corso paga in questo un pessimo rapporto con i CT: prima Giovanni Ferrari (cui ha riservato un clamoroso gesto dell’ombrello al termine di una partita) poi Mondino Fabbri che gli preferiva il suo pupillo Pascutti. Il 9 ottobre 1971 Corso gioca la sua ultima partita in nazionale nel rotondo successo sulla Svezia (3-0). Nonostante la scarsa fortuna con la casacca della Nazionale Corso è stato convocato dalla FIFA nel 1967 per un’amichevole del Resto del Mondo contro la Spagna in onore del leggendario portiere iberico Ricardo Zamora. A conferma che Mariolino forse è stato un calciatore più apprezzato all’estero che in patria.

Ultimi botti di fine carriera con congedo al Genoa (1970-75)

La stagione 1970/71 è stata probabilmente la migliore di tutta la carriera interista di Mariolino: dopo un pessimo avvio sotto la guida di Heriberto Herrera (detto HH2, solo omonimo di Helenio) infatti Corso si carica letteralmente la squadra sulle spalle portandola alla vittoria di un insperato tricolore. In questa annata il veronese cambia ancora una volta posizione nello scacchiere tattico: indossa sempre l’undici ma questa volta giostra da “fantasista” dietro all’unica punta Boninsegna con Mazzola che è diventato definitivamente centrocampista.

Nel 1973/74 la società nerazzurra richiama sulla panchina Helenio Herrera e per il trentaduenne Corso, considerato ormai sul viale del tramonto, non c’è più scampo. A nulla vale il “pressing” di Lady Renata Fraizzoli, moglie del presidente Ivanhoe, colei che una volta aveva sentenziato: “vale di più un quarto d’ora di Corso che novanta minuti di Domenghini”. Herrera dopo decenni di bocconi amari inghiottiti può finalmente vendicarsi: Corso così viene ceduto al Genoa dove comunque conferma di essere “bollito” (tre gol in ventitré presenze con il Grifone che non riesce a salvarsi).

Una rara immagine di Corso in maglia genoana.

Una (dimenticabile) carriera da allenatore (1975-1992)

Nel 1975 il veneto appende gli scarpini al chiodo e inizia una, non indimenticabile, carriera di tecnico allenando nelle giovanili del Napoli e dell’Inter (con la sua squadra del cuore ha avuto anche una parentesi in prima squadra nel 1985/86 in sostituzione di Ilario Castagner), il Lecce, il Catanzaro, il Mantova ed il Barletta dove ha allenato il suo grande “erede” all’Inter, ormai a fine carriera, Evaristo Beccalossi, forse il giocatore che come caratteristiche tecniche e caratteriali lo ha più emulato. L’ultima avventura su una panchina Corso la compie proprio nella sua città natale, allenando in coppia con Liedholm un Hellas Verona che non riuscirà a salvarsi in massima serie. Ora lassù Corso starà raggiungendo molti suoi compagni prematuramente scomparsi: Giuliano Sarti, Giacinto Facchetti, Carlo Tagnin, Joaquín Peiró. Non serve fare “catenaccio” con una squadra del genere…