Nel 1963 la giornalista Hannah Arendt pubblicava quella che sarebbe divenuta la sua più celebre opera. La scrittrice, analizzando la tesi difensiva di Adolf Heichmann, coniò l’espressione “banalità del male”, riferendosi alla semplicità che caratterizzava la spietata politica repressiva della Germania nazionalsocialista. Semplicità derivante, a detta della scrittrice, dalla mancanza di senso critico nell’eseguire gli ordini da parte della quasi totalità degli esponenti del Terzo Reich.
Ciò che stupisce, ogni qualvolta si analizzino obiettivamente i macro-fenomeni storico-politici, è come anche la malafede, alla pari del male, sovente si manifesti in modo semplice, lineare, a tratti banale. Ciò sorprende perché quando si pensa alla malafede dei governi, o più in generale della classe politica, il più delle volte corrotta e asservita ad istituzioni terze, si è portati a credere che questi mettano in atto chissà quali strategie al fine di evitare che l’opinione pubblica venga a conoscenza delle loro effettive intenzioni, mentre in realtà il tutto avviene alla luce del sole e nella totale indifferenza del popolo, che si dimena in una condizione di assuefazione alla disillusione.
Circa venti anni fa, a seguito dell’attacco alle “torri gemelle”, l’esercito americano guidò la coalizione NATO che intervenne militarmente in Afghanistan. La motivazione era scontata. Annientare una delle principali roccaforti di Al-Qaeda e creare, al tempo stesso, le condizioni socio-politiche che avrebbero condotto l’intero paese verso la democrazia, il ripudio dell’integralismo religioso e una maggiore apertura verso l’Occidente.
Tutto sommato per un ventennio le cose hanno anche funzionato (come gli esportatori di democrazia volevano), nel senso che una buona parte degli obiettivi del piano di “ricostruzione” dell’Afghanistan sono stati raggiunti. I moderati avevano assunto la guida del paese, si è riscontrato un miglioramento della condizione della donna nei vari ambiti della società, l’esercito nazionale è stato supportato dalle forze NATO e gli integralisti sembravano essere scomparsi dalle scene.
Chi conosce il sistema americano, in cui i reali detentori del potere sono le grandi corporations dell’ingegneria, il cartello bancario, l’industria bellica e le multinazionali dell’energia, però sa bene che ogni qualvolta l’America “si muove”, coinvolgendo come sempre anche il resto del mondo, quasi mai lo fa per ragioni puramente umanitarie, ma per tutelare i propri interessi nazionali, rafforzare il proprio ruolo geopolitico in aree strategiche, creare la rete logistica necessaria per il controllo dei paese “non allineati”. Se poi esiste anche una motivazione nobile che giustifichi un intervento militare, tanto meglio, altrimenti, come spesso è accaduto in passato, si pensi ad esempio al colpo di stato in Guatemala nel 1954, la si crea appositamente.
Nella fattispecie, l’America ha dapprima invaso l’Afghanistan, usando come pretesto l’attacco alle torri gemelle, per poi abbandonarlo proprio nel momento di maggior bisogno a seguito del mutamento della situazione geopolitica originaria, a dimostrazione che la presenza in Afghanistan, sebbene abbia prodotto risultati positivi, non è stato altro che un diversivo per coprire altre finalità. Non è casuale, infatti, che all’incirca nello stesso arco temporale, 2001-2015, ci sia stata una nutrita presenza di truppe NATO in Iraq, poiché Iraq e Afghanistan, guarda caso, si trovano rispettivamente ad ovest ed est dell’Iran, da sempre nemico giurato di U.S.A. e Israele.
La strategia era chiara. Accerchiare l’Iran, chiudendolo ad est con l’Afghanistan e ad ovest con l’Iraq, rendendo così più difficili i collegamenti con gli alleati storici come Siria e Libano.
Le cose poi sono andate diversamente. Da una parte la graduale perdita di controllo dell’Iraq, dall’altra la crescita della Cina, hanno fatto sì che l’America sia stata costretta a rivedere la propria presenza in Medio Oriente, riducendo ai minimi termini il numero dei propri uomini in Iraq e abbandonando l’Afghanistan a se stesso, sia formalmente che sostanzialmente, a seguito della sottoscrizione degli accordi di Doha nel 2020, quando già da tempo, la minaccia integralista era tornata ad essere una realtà. Tutto questo però, è ormai storia.
Venti anni. Venti anni sono trascorsi. Venti anni di trattative diplomatiche, di finanziamenti, di costruzioni di infrastrutture. Venti anni ci sono voluti per realizzare l’imponente impalcatura di copertura della presenza americana in Afghanistan, per poi smantellare il tutto in poco più di un anno a causa delle mutate condizioni geopolitiche. Senza il minimo scrupolo di coscienza nel sacrificare il futuro dell’Afghanistan nel nome della causa imperialista.
Il male è banale ma la malafede, tutto sommato, lo è molto di più.