Nell’Africa che “El Nino” rischia sempre più di mettere in crisi in termini di produttività agricola, avanzano continuamente l’ISIS e la sua filiale subsahariana Boko Haram. Probabilmente codesti due fenomeni presentano una qualche correlazione. La crisi dell’agricoltura conosciuta dall’Africa, infatti, sta consegnando nuovi adepti e simpatizzanti ai movimenti fondamentalisti: persone che, in termini molto semplici, cercano soltanto una via per sopravvivere.
L’Africa di oggi, sotto il profilo agricolo, produce di più di un tempo: questo perché molti terreni un tempo ad uso comune, dove si praticavano un’agricoltura ed una pastorizia di tipo estensivo, sono oggi stati acquisiti da realtà (imprenditoriali e non) che li hanno convertiti all’agricoltura e all’allevamento di tipo intensivo, caratterizzati da una maggior produttività anche in virtù delle migliori tecnologie adottate. Ciò, però, ha messo fuori giochi intere categorie di coltivatori ed allevatori che fino ad oggi si sostentavano proprio grazie allo sfruttamento estensivo di quelle terre, e che non hanno alternative a causa dell’avanzata del deserto che coinvolge i terreni marginali o comunque non sottoposti al fenomeno della “modernizzazione agricola”.
Questo fenomeno economico, già conosciuto dall’Europa ai tempi della soppressione del feudalesimo e delle “enclosures”, si sta oggi ripetendo anche in Africa ed ovviamente non può avere, esattamente come nel primo caso, che effetti positivi. La produzione agricola migliorerà in termini qualitativi e quantitativi, trasformando l’Africa da continente dedito ad un’agricoltura di sussistenza a realtà esportatrice di merci agricole verso l’Europa e soprattutto verso l’Asia, naturalmente anche con grandi benefici per la bilancia commerciale dei paesi coinvolti.
Tuttavia restano dei problemi, e nemmeno di piccola portata: la sottrazione delle terre comuni sta producendo una nuova massa di disoccupata, di ex contadini ed ex pastori impossibilitati dal continuare il loro mestiere, e che pertanto, se vogliono sopravvivere, hanno solo due possibilità: o espatriare verso la “ricca” Europa, o affidarsi nelle mani di quei movimenti e gruppi che, anche solo per attirarli al reclutamento, sposano almeno in parte le loro recriminazioni ed offrono quindi loro delle rivendicazioni.
È stato il caso del gruppo di ribelli del Nord Kivu nella Repubblica Democratica del Congo, dei Janjawid nel Darfur, ma a guardar bene anche dei Mahdisti nel Sudan dell’Ottocento, e oggi lo stesso discorso vale anche per Boko Haram tra la Nigeria, il Ciad ed il Camerun e per l’ISIS in Libia. Questi movimenti riescono, in un modo o nell’altro, ad offrire una soluzione per continuare a vivere a coloro che vi si rivolgono, per disperazione o per ignoranza.
Quindi, dalla Libia fino all’Africa Nera, l’Occidente deve imparare a fare i conti con queste realtà anche da un punto di vista socio-economico e non soltanto politico-militare. La soluzione definitiva e radicale non è rappresentata esclusivamente dai bombardamenti, ma anche e soprattutto da politiche economiche e sociali mirate che reinseriscano le vecchie categorie produttive escluse dalla modernizzazione del sistema agricolo africano nel mondo del lavoro, offrendo loro speranze di vita persino migliori di quelle del passato. In caso contrario, Boko Haram e l’ISIS, facendo leva sulla povertà e sulla precarietà delle popolazioni locali, avranno sempre gioco facile e potranno espandersi quanto vogliono.
Il peggioramento climatico degli ultimi tempi, rappresentato anche dal ciclone “El Nino” che sta flagellando le aree agricole africane, costituisce poi un ulteriore incentivo a questo già di per sé gravissimo fenomeno politico, sociale ed economico, le cui radici sono però religiose. Dobbiamo fare molta attenzione al fatto che dietro a movimenti che brandiscono l’arma del fondamentalismo religioso si nascondono in realtà, perlomeno per quanto riguarda le ragioni dell’arruolamento di tanti loro combattenti, motivazioni legate alla pura sopravvivenza quotidiana, alla disoccupazione, alla mancanza di un futuro. E questo proprio perché le terre un tempo comuni oggi o non sono più disponibili o si sono inaridite a causa dell’avanzata del deserto.
Incolpare la Cina, l’India o il resto dell’Asia o ancora il Sud America perché hanno stimolato il fenomeno della riconversione dei terreni comuni africani, indirizzandoli affinché fossero più produttivi, esportassero derrate e fornissero lavoro a tanta manodopera locale, sarebbe fuorviante e fuori luogo. Sarebbe come guardare il dito anziché la Luna.
Dobbiamo, invece, dire che la globalizzazione ha ormai decisamente fatto il suo tempo, perché ha rafforzato la condizione dell’Africa come colonia commerciale dell’Occidente e dei paesi industrializzati e sviluppati, impedendole di avere quindi una sua reale autonomia produttiva, economica e commerciale. È proprio questo aspetto a far sì che masse sempre più ingenti d’africani si ritrovino senza lavoro, e tentate quindi dal rivolgersi a movimenti di guerriglia come ISIS e Boko Haram o altri ancora. I quali, in ogni caso, nella difficile e dolorosa situazione generale africana non hanno mai problemi a reperire braccia e sostegni persino tribali per le loro fortune politiche e militari.