I disturbi alimentari sono considerati come le psicopatologie che più vengono influenzate dalla cultura: in particolare i canoni di bellezza femminile sono stati messi in relazione all’esordio di anoressia e bulimia nelle donne. Dai dati emersi negli ultimi anni, si è notata però la tendenza all’aumento di casi che interessano i maschi, fenomeno questo che però interessa in maniera quasi esclusva le giovani generazioni: anche in questo caso il contesto culturale potrebbe incidere, poiché gli ideali di bellezza maschile e femminile tendono ad avvicinarsi, soprattutto sul versante della magrezza.
Comprendere una cultura è difficile perché richiede mettersi in una posizione paradossale, tentare di porsi, in qualche modo, sia all’interno che all’esterno di essa: spesso si sono studiati i canoni estetici spostandosi all’indietro nel tempo, scoprendo una grande variabilità nei modi di incarnare la bellezza.
Un’altra conferma di questa variabilità si può ottenere comparando i diversi canoni presenti in società geograficamente separate: differenze esistenti, ma che sembra stiano diminuendo a causa della globalizzazione; oramai i mass media diffondono un concetto di “bellezza equivalente a magrezza”, attraverso la continua esposizione di corpi così perfetti da essere irrealistici, in ogni angolo di mondo.
Per sovrammercato, le immagini autentiche delle modelle vengono spesso modificate mediante foto ritoccate al fine di renderle ancora più vicini all’ideale di perfezione così imposto.
L’ideale di magrezza eccessiva non è presentato dai media come irraggiungibile e pericoloso, non si accenna neppure alle restrizioni alimentari patologiche a cui le modelle si sottopongono, né alle astute operazioni di trucco e fotomontaggio, così si illudono le donne che sia possibile, mediante diete ed esercizio fisico, raggiungere e mantenere l’ideale: in chi non ce la, si innescano spesso meccanismo di autopunizione. Sia chiaro: nei disturbi alimentari sono in gioco anche fattori individuali e familiari e solo su questi aspetti potremmo scrivere pagine e pagine, ciò non di meno l’aspetto socioculturale conta e non poco.
Vivere in un contesto che propone certi canoni estetici costituisce già di per sé un fattore di rischio per i disturbi alimentari, che è molto più forte se ad essi, in maniera più o meno inconsapevole, si aderisce.
Un’illuminante dimostrazione dell’impatto della cultura sull’anoressia viene dall’opera del dottor Sing Lee, il primo studioso a documentare casi di questo disturbo in donne cinesi. Dopo aver studiato psichiatria in Inghilterra, iniziò a lavorare al ‘Prince of Wales Hospital’ di Hong Kong a metà degli anni ottanta. Durante il suo percorso di studi svolto come detto in Inghilterra aveva conosciuto l’anoressia, che gli era sembrata qualcosa di terribile, eppure affascinante poiché misterioso, inspegabile: com’era possibile che giovani donne sane e brillanti si riducessero alla fame? Da quando giunse al ‘Prince of Wales’ iniziò a cercare casi di anoressiche cinesi, spulciò le migliaia di casi clinici presenti mell’archivio dell’ospedale e trovò solo dieci possibili casi nel quinquennio 1983-1988: si trattava di un’incidenza ridottissima rispetto a quella occidentale: una simile differenza transculturale era sorprendente ed egli tentò di darvi delle spegazioni. Teorizzò che la cultura cinese potesse agire come fattore di protezione: esistono là dei modi di dire del tipo “Chi è grasso ha più fortuna”. Prese in considerazione anche il ritardo nell’inizio della pubertà delle ragazze cinesi rispetto alle giovani occidentali. Eppure queste spiegazioni non gli bastavano, soprattutto per quel che riguardava il territorio di Hong Kong, che si era molto occidentalizzato durante il governo britannico e dove la maggioranza dei giovani mostravano stili di abbigliamento e di alimentazione del tutto simili a quelli dei coetanei inglesi.
La cultura cinese dà molta importanza al cibo: questo poteva valere come protezione, ma anche rendere il rifiuto dei pasti assai attraente per degli adolescenti alla ricerca di forme di protesta. Insomma c’erano anche là tutti i fattori scatenanti dell’anoressia evidenziati dalla ricerca scientifica occidentale, ma i casi rimanevo aneddotici. Notò poi che le anoressiche orientali non solo erano rare, erano anche diverse, tanto che egli si chiese se si trattasse davvero dello stesso disturbo.
Il DSM-III, che allora era il punto di riferimento della diagnosi psicopatologica, descriveva la paziente anoressica con un forte timore di diventare obesa non ostante il scarso peso e avente un’immagine di sé distorta, mentre Lee incontrò poche pazienti anoressiche, che però non presentavano le caratteristiche previste dal manuale: a differenza delle occidentali si trattava di ragazze provenienti da famiglie povere, non erano brillanti negli studi, soprattutto si sentivano inferiori alle loro coetanee sane e manifestavanio il desiderio di somigliare loro e tornare al proprio peso-forma. Per fortuna, però, erano pochissime. Nel 1989 Lee scrisse che potesse esistere un “detonatore epidemiogenico” dell’anoressia che, una volta innescato, avrebbe avuto “un effetto esplosivo”. Purtroppo aveva ragione: l’innesco avvenne il 24 novembre 1994 quando Charlene Hsu Chi-Ying morì in strada nel centro di Hong Kong.
La morte catturò l’attenzione dei media cinesi. I giornali le decicarono titoli come: “Più sottile di un fiore giallo, trovato libro sulla perdita di peso nello zaino, studentessa cade a terra morta in strada”. La storia del dottor Lee l’abbiamo conosciuta dalla lettura di una sua intervista rilasciata ad Ethan Watters, giornalista del ‘New York Times’ e di ‘Wired’ e autore nel 2010 del libro “Pazzi come noi”, la cui tesi è che l’americanizzazione delle conoscenze in psicopatologia modifica il modo di ammalarsi nel resto del globo.
Al momento della morte di Charlene gli esperti di salute mentale citati nei giornali dichiararono che l’anoressia a Hong Kong era lo stesso disordine che appariva in occidente: secondo Watters le idee occidentali non hanno semplicemente offuscato la comprensione dell’anoressia; potrebbero aver cambiato le stesse modalità di manifestazione della malattia. Grazie al risalto dato dai media alla vicenda la diagnosi del DSM è diventata una conoscenza diffusa e da allora i pazienti del dottor Lee non solo sono aumentati, ma sembrano conformare sempre più la loro esperienza alla versione occidentale della malattia: alla fine degli anni 90 gli studi di Lee riportavano che il 3-10% delle giovani di Hong Kong presentavano disturbi dell’alimentazione, spesso caratteizzati dalla fobia del grasso come la più importante motivazione della loro deprivazione volontaria di cibo, nel 2007 circa il 90% degli anoressici trattati da Lee presentava tale fobia.
Il dottor Lee alla fine dell’intervista si è detto convinto che gli assunti occidentali sui disturbi alimentari non solo agiscano da vettore della malattia, ovvero la incrementino, ma rendano anche i professionisti meno capaci di comprendere ciò che essa significhi nella vita del singolo paziente. Secondo lo studioso ciò avviene in tutto il mondo anche per altri disturbi come depressione, sindrome di attenzione e iperattività e disturbo post-traumatico da stress: una conferma alla tesi di tutto il libro di Watters.
Un motivo di più per resistere, per quanto possibile, alla globalizzazione-americanizzazione.