I dati emersi dal congresso dell’Associazione europea di Psichiatria (EPA), tenutosi alla fine di marzo a Vienna, sono davvero preoccupanti: sarebbero infatti 164 milioni, cioè il 38,2% della popolazione totale, gli europei colpiti da qualche forma di disturbo mentale, con un impatto economico stimato in 798 miliardi di euro. Solo in Italia il problema riguarderebbe ben 17 milioni di persone. La questione della salute mentale è ormai una questione di sanità pubblica e si teme che le cose possano peggiorare ulteriormente: entro il 2.030 è stato previsto che le patologie psichiatriche divengano le malattie più frequenti in assoluto.

Negli ultimi anni si è verificato l’aumento di casi, tra gli altri, dei disturbi d’ansia, della depressione, della mortalità alcol-correlata, nonché della la piaga dei suicidi: sono numeri che rivelano una condizione esistenziale sempre più difficile, aggravata dalla crisi economica, che ha portato ad uno scadimento della qualità della vita, e della velocità dei cambiamenti nell’attuale mondo globalizzato, che richiedono alle persone di adattarsi rapidamente alle nuove tecnologie e spesso a condizioni mutevoli tanto in ambito lavorativo, sociale e familiare.

Per comprendere meglio la gravità della situazione si deve tener conto di un dato ulteriore: soltanto un europeo affetto da disturbi mentali su tre si cura ed assume i farmaci appropriati e complessivamente meno del 10% arriva da uno specialista. Le patologie più frequenti risultano essere al primo posto i disturbi d’ansia (14%), seguiti da insonnia (7%), disagi per i quali accade spesso che le persone non chiedano un aiuto specialistico, contrariamente a quanto accade, per esempio, nel caso del terzo disturbo più frequente, ovvero la depressione maggiore (6,9%).

L’Italia dispone di un Servizio Sanitario Nazionale che, pur sottoposto negli ultimi anni a vigorose sforbiciate, viene considerato tra i migliori al mondo e in particolare all’avanguardia per quanto concerne la cura dei disturbi mentali, ciononostante presenta alcune falle anche in questo ambito, in particolare riguardanti la prevenzione da una parte e l’accesso di un certo tipo di potenziali pazienti dall’altra.

La prevenzione, oltre che degli investimenti non sufficienti, dovuti alla diminuzione delle risorse disponibili, per cui si tenta di intaccare meno possibile la quota riservata alle attività di cura, risente anche di un contesto sociale che in molti casi spinge nella direzione contraria: un esempio clamoroso, anche se non l’unico, è l’esplosione dei casi di gioco d’azzardo patologico o ludopatia che si può certo attribuire, in buona parte, al bombardamento pubblicitario cui sono sottoposti telespettatori e navigatori della rete. Particolarmente ambiguo è poi il comportamento dello Stato, che da una parte fornisce ai giocatori cure di buon livello mediante i professionisti e le strutture del succitato Servizio Sanitario Nazionale, dall’altra guadagna direttamente su vari concorsi e lotterie e, cosa ancor peggiore, fa sconti del 99% sulle tasse alle aziende che gestiscono le famigerate slot-machine.

La difficoltà nell’accedere alle cure del singolo cittadino riguarda soprattutto chi ha l’unica colpa, se così si può dire, di non essere abbastanza grave. Ci riferiamo a coloro che vivono un disagio che, pur comportando una notevole sofferenza individuale, non rientra nelle principali diagnosi psichiatriche come la schizofrenia o la depressione. Numericamente si tratta della maggior parte dei casi di disagio mentale, ma non sono tali da allarmare più di tanto chi gli sta intorno e quasi sempre non arrivano alla conoscenza di un professionista.

In ambito psicologico il Servizio Sanitario Nazionale fornisce assistenza di qualità alquanto diseguale in riferimento alle diverse regioni, come si suol dire “a macchia di leopardo”, ma nel complesso è abbastanza accessibile, almeno sulla carta, a determinate tipologie di utenti: i minori, gli anziani, i disabili, le famiglie, le persone che soffrono a causa di dipendenze da sostanze o dal succitato gioco d’azzardo; chi non rientra in una di queste categorie non ha un punto di riferimento dedicato.

Una persona che viva un momento di difficoltà e sia, cosa purtroppo tutt’altro che scontata, consapevole della propria situazione e disposta a mettersi in gioco chiedendo aiuto, potrebbe non trovare nulla, oppure servizi che si occupano quasi esclusivamente di casi tanto gravi da poter provocare allarme sociale, ciò costituisce un problema in quanto la vicinanza con il disturbo mentale severo può risultare destabilizzante per chiunque, in particolare per chi vive già un momento di difficoltà. Se invece ha la fortuna di evitare un simile incontro, oppure se è capace di sopportarlo e resiste alla tentazione di andarsene, forse riuscirà ad avere un colloquio con uno psicologo o uno psichiatra che, constatane la scarsa gravità, non potrà fare altro che metterlo in lista d’attesa dietro alle situazioni più gravi. Anche qualora più tardi venga preso in carico il suo trattamento non costituirà una priorità per il servizio pubblico, schiacciato fra un carico di lavoro crescente e risorse che si assottigliano di anno in anno.

La soluzione che resta disponibile per questa categoria di persone è allora quella di rivolgersi al privato, affrontando in genere una spesa che va dai 50-60 euro settimanali in su, per un periodo che potrebbe prolungarsi per molti mesi se non addirittura qualche anno. Si tratta di un esborso che non tutti si possono permettere e che può, inoltre, risultare il fattore determinante nel convincere una persona a rinunciare a curarsi, pur avendo la possibilità economica di farlo, ma solo al costo di rinunciare ad altre spese, magari voluttuarie. Una simile scelta può essere spiegata anche dalla sottovalutazione delle possibili conseguenze che un disagio psichico, che pure non interferisca pesantemente nell’attività della vita quotidiana, se non trattato, potrebbe comportare nel giro di qualche anno.

Basti pensare all’autostima: solo se molto scarsa viene considerata segno di malattia, eppure molte persone la presentano a livelli non ancora ritenuti patologici, ma già tali da inficiarne la qualità della vita, facendoli sentire non all’altezza, aumentandone l’ansia e così via.

Un individuo dotato di scarsa autostima potrebbe riuscire a stare meglio senza l’aiuto di un professionista in seguito ai successi raggiunti o ad altre circostanze fortunate, ma se tali situazioni non si dovessero verificare potrebbe peggiorare, magari incorrendo in una franca patologia, per esempio una depressione. L’attuale pressione al successo individuale ha difatti modificato le caratteristiche stesse di questa malattia, che un tempo, in una società più moralistica, era una conseguenza soprattutto del senso di colpa (“non sono abbastanza buono”), mentre ora è piuttosto legata a un senso di inadeguatezza, alla bassa autostima (“non sono abbastanza bravo”), cosicché una persona che vada incontro a una serie di insuccessi rischia seriamente di deprimersi.

La parola autostima è ormai diventata di uso comune, com’è accaduto o sta per accadere ad altri termini tecnici della psicologia: è conosciuta anche da non specialisti e ciò è un bene, poiché aumenta la sensibilità di un vasto pubblico nei confronti del proprio funzionamento psicologico e fornisce eventualmente una spiegazione alle difficoltà personali non più moralistica e, quindi, incapacitante. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che molte persone finiscono per rivolgersi, anziché a un professionista, ad un libro o alla solita rete, dove potrebbero trovare consigli utili ma anche venire fuorviati.

Uno sforzo massiccio nella prevenzione del disagio psicologico, che come visto può essere l’anticamera di patologie ben peggiori, sarebbe auspicabile, soprattutto verso i giovani adulti, la cui salute è da ritenere fondamentale nella vita di una nazione, nonché per le generazioni più giovani, in considerazione della tendenza più preoccupante tra tutte: l’aumento dei casi di depressione tra gli adolescenti e addirittura, fenomeno molto raro fino a qualche decennio fa, tra i bambini.