Il 20 gennaio 2017 non è un Inauguration Day come tutti gli altri della recente storia statunitense, o solo un passaggio di consegne; probabilmente questa è una data destinata a segnare un passaggio di consegne ben più che meramente amministrativo.

Si tratta, nel bene o nel male, di una data che figura da spartiacque tra due mondi estremamente diversi, polarizzati, solcati da faglie ampie e taglienti, una data nel quale uno avvicenda l’altro.

Una data che potrebbe innanzitutto segnare la fine di un’era storico-politica per come la conosciamo e innestare nuovi valori comuni nel panorama occidentale. Se anche il “trumpismo” non dovesse durare, e non dovesse andare oltre Trump stesso, ed essere solo un intermezzo, questa forte cesura nella politica interna statunitense non potrà comunque non lasciare nette tracce: a riassumere perfettamente il significato di questo 20 gennaio, ci ha pensato l’ex Ministro Giulio Tremonti: «Non è stata la fine del mondo ma sarà la fine di “un” mondo […] Quella che stra crollando è un’utopia. L’utopia della globalizzazione».

L’idea che questo 20 gennaio sia un vero ingresso in un altro, perlopiù inedito e incognito, sistema internazionale, un passaggio storico forse inevitabile per il punto al quale si era giunti, circola sotto varie forme.

Certamente, le differenze del Trump-pensiero con tutte le amministrazioni degli ultimi decenni (anche le più “divergenti”, come possono essere state quelle di Nixon o di Carter) sono macroscopiche: un neo-Presidente che esplicitamente rifiuta, denuncia e intende abbattere quella “società aperta” un po’ popperiana e un po’ (soprattutto) sorosiana, che nessuno aveva mai messo in discussione nemmeno in campagna elettorale.

Che intende, per la prima volta dagli Anni ‛30, ripiegare su di una strategia isolazionista (rifiutando così tutte le varie dottrine susseguitesi negli anni, dalla Dottrina Truman fino al “Pivot to Asia” di Obama), protezionista (negando gli stessi presupposti che guidarono Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale verso gli Accordi di Bretton Woods), filorussa (pressoché inedita, se si eccettua Roosevelt e le intese temporanee per gli accordi di SALT durante la Guerra Fredda), votata al disimpegno e, descritta, come “illiberale”.

Quest’ultima è la caratteristica, forse, che più indigna le schiere dei nemici di Trump: la paura di un Presidente dichiaratamente in guerra con la stampa “libera” (o quantomeno “mainstream”), tanto da volerla selezionare e scremare dalla Casa Bianca; estremamente duro con l’immigrazione e che, infine, secondo i suoi detrattori basa la sua forza sull’attacco, sull’affronto tête-à-tête degli avversari, su di una retorica a volte elusiva e a volte, se non più spesso, offensiva e senza mezzi termini.

Insomma, un Presidente descritto come non esattamente “tollerante” e “mentalmente aperto”, almeno per gli standard statunitensi. Questo tipo di figura non è solo il prototipo di spauracchio della “società libera” e dei suoi correlativi: è il tipo di figura nata in risposta a questo sistema, l’unica veramente alternativa e che potesse batterlo.

Si è detto, da Tremonti a Zucconi a Severgnini (anche se con toni diversi l’uno dall’altro), che Donald Trump più che essere un politico “positivo“ sia un politico “negativo”: nel senso che ha trionfato perché “contro” qualcosa, e non “per” qualcosa.

Beneché riduttivo questa idea ha ampie basi di verità. Trump ha potuto vincere, in primo luogo, perché lottava contro qualcosa, contro un sistema-paese che aveva una sua totalità: di linguaggio, principi, media, convenzioni, valori, approcci.

Un sistema in un certo senso “totalizzante”, ed è contro questo che Trump è sceso in battaglia: contro qualcosa che negli anni ha mostrato molti più fallimenti che vantaggi, contro un mondo che si è rabbonito e raddolcito esteticamente (si pensi anche alle caustiche definizioni usate da Clint Eastwood per definirlo) ma svuotato di contenuti reali, che aveva mostrato di aver maggior cura dei princìpi morali piuttosto che reali, incapace di rinnovarsi se non rimanendo nella spirale dell’autocelebrazione, che nessuno ha mai voluto prima d’ora mettere in discussione fin dalle fondamenta.

Donald Trump ha detto di NO, per la prima volta. Un no netto, che sapeva di non poter fare compromessi. Il popolo statunitense ha disatteso l’immagine che i grandi colossi delle news, che i “grandi analisti” e i tanto encomiabili sondaggisti avevano dato dell’8 novembre ed ha scelto di condannare, senza appello, di bocciare gli otto anni di Obama.

È stato assolutamente anche un voto “negativo”, anche un voto “contro” qualcosa: ma non per questo va sminuito. Se si è trattato di un voto contro, è perché quel sistema-paese che da tanto tempo imperversa senza freni risulta sempre meno sopportabile, efficiente, organizzato, giusto, e coerente con se stesso. E di questo anche l’Europa sembra rendersene conto.

La lotta intrapresa da Trump contro Hillary Clinton, e più in generale contro il sistema che essa rappresentava, non manca di una certa esizialità per la storia statunitense, e al contempo dà una ancor maggior personalizzazione al potere. Personalizzazione che è un’altra caratterisca fondamentale del Trump-pensiero, declinata però in maniera tutta particolare. Che il presidenzialismo fosse per natura un sistema tendente ad una sovraesposizione personale dei candidati lo si sapeva; quel che forse è meno scontato, è che un tipo di personalità come quella mostrata pubblicamente da Trump potesse trionfare. Gli Stati Uniti, certo, hanno eletto attori di cinema e petrolieri, ma si trattava di personaggi pubblici che si mostravano lungo il solco del mainstream: linguaggio politicamente corretto, tendenzialmente misurato, una tendenza a limitare la “divisività”, assenza di ironie smaccate, battute eccessive e altri modi retorici spesso definiti negativamente come “plebei ed accattivanti”. Donald Trump, di tutto questo armamentario che conta una sua storia ben codificata, non se ne è minimamente curato: il tycoon aveva alle spalle una carriera di imprenditore miliardario nell’edilizia, di show man apparso nel wrestling, in popolari film e conduttore di reality show. Insomma, una carriera che ha molto più “plebeismo” di qualsiasi altro Presidente statunitense, ma che Trump ha rivolto a suo favore: invece di abbandonare il popolarismo dei suoi modi per indossare la giacca del politico, Trump ha portato alla ribalta e alla vittoria uno stile che si potrebbe benissimo definire “nazionalpopolare”. Piuttosto che accostarsi verso il “moderatismo”, il candidato Presidente ha puntato tutto su di un modello che riprende ed esalta un far politica molto più vicino alla gente: discorsività accesa, nessun utilizzo di “mezze misure”, uso di forte ironia (anche brutale) e di battute, promesse chiare e nette, un’indicazione chiara e netta del nemico, una retorica coinvolgente e travolgente fatta di esaltazione, promesse radicali e simpatia. Un modello non inedito (si può dire che altri leader vincitori, pur con delle differenze, lo hanno anticipato, primo tra tutti Silvio Berlusconi), ma vincente nonostante il discredito che proveniva dagli ambienti “ufficiali”. Un modello che, invece di ridicolizzare ed emarginare il candidato come molti pensavano, lo ha reso più vicino al popolo, più sincero, più apprezzabile, meno lontano, meno capzioso e rigido, più mutevole e più accattivante, e in un certo senso “più umano”, di fronte all’algidità e alla convenzionalità politica che molti politici (in primis la Clinton) hanno mostrato.

Rispettando in pieno le logiche della (iper)personalizzazione del potere, Donald Trump si è giocato tutta la sua immagine pubblica (e sue eventuali chance di far politica in futuro) in quella che molti ritenevano una ridicola e disperata corsa contro i mulini a vento: ha deciso di non cambiare sè stesso pubblicamente per piacere di più, sapendo che era proprio perché lui era così che piaceva – politicamente, ha continuato a rilanciare, ad esagerare, a sbottare, convinto che la “forza” che il suo avversario millantava di avere tra le carte (i sondaggi, in primis) non fosse che un bluff. Ha avuto tremendamente ragione.

Come molti analisti hanno detto, efficacemente: «Gli avversari di Trump lo avevano preso alla lettera ma non sul serio; ora lui agirà sul serio ma non alla lettera». Pur con le sue nomine “coerenti” e con la reiterazione delle sue promesse elettorali più estreme, potrà il nuovo Presidente cambiare gli Stati Uniti? E quanto potrà farlo? Questa è la questione fondamentale di ogni sistema democratico: la trasformazione della promessa elettorale in atto, gli impedimenti endogeni ed esogeni, le strutture preesistenti e ingabbianti e le possibilità di mutarle o abbatterle. Il sistema di governo statunitense prevede, per sua natura, i cosiddetti check and balance, ovvero dei meccanismi interni che, pur in presenza di un Presidente agguerrito con Camera e Senato ai suoi ordini, frenano il potere e proteggono i cittadini da eventuali abusi. E ciò rende difficile a Trump agire a livello giuridico in maniera troppo radicale, e certamente non gli sarà possibile agire da “super Presidente/autocrate” come qualcuno ha anche suggerito. Le difficoltà maggiori, oltre a quella legale appena menzionata, per un’applicazione totale del Trump-pensiero nella pratica hanno due cause, in parte arginabili e raggirabili, in parte persistenti: politiche e sociali. Le cause politiche sono quelle che risiedono nel suo stesso Partito e nel sistema economico-finanziario statunitense: Trump può presentarsi da vincitore presso i repubblicani, come «un Marcello» che ha vinto in solitaria sull’odiatissima Clinton, ma avrà sempre ampie frange del Partito (a parte da McCain e dai neocon) restie e ribelli alla sua leadership, in grave disaccordo su molte questioni chiave, e impegnate in una battaglia contro di lui che ha tanto del personale (la figura di Trump non è ben vista) quanto del rancoroso (il Grand Old Party comandato da un mezzo istrione?). Trump ha bisogno di un Partito compatto e che voti le sue leggi, e, in ogni caso, dovrà scendere a qualche forma di compromesso con i suoi “ribelli”. Alle resistenze del suo stesso Partito, bisogna aggiungere quelle di un altro meccanismo essenziale dello Stato americano: le lobby, il potere che esse esercitano, l’influenza che esse hanno sui parlamentari e i fondi dei quali dispongono. Se Trump è sì in buoni rapporti con le “lobby delle armi”, con altre la situazione è più di reciproca sfiducia e dovrà tramutarsi in una necessità di compromessi: le lobby restano comunque dei conglomerati economici dal potere fortissimo e impossibili da domare completamente. Difficilmente potranno essere piegate da un Presidente, seppur forte, con metodi politici.

Ma sono le resistenze “sociali” quelle con le quali più dovrà battagliare Donald Trump: ovvero la fine di quella che Lijphart avrebbe definito «democrazia depoliticizzata» del sistema USA, il poco consenso del quale Trump gode presso i grandi centri urbani, ed un vero e proprio rigetto di una parte della popolazione: una fetta dell’America che in partenza si sottrae e si ribella alla Presidenza Trump, e perciò più difficile da ammansire e controllare. Complicato sarebbe soprattutto condurre politiche radicali che potrebbero aizzare ancora di più questa fetta dei cittadini. Il popolo statunitense è in gran parte cresciuto secondo canoni ideologici estremamente liberali e liberisti, non lontani dalla tentazione dello “Stato minimo”, secondo una tradizione che pone l’individuo in contrasto con il potere e con un suo diritto alla resistenza contro l’arbitrio, idee molto più marcate che non in Europa. È dunque difficile pensare che Trump possa compromettersi con manovre liberticide, illiberali, con bavagli e “svolte autoritarie” di fronte ad un’opinione pubblica che non lo seguirebbe per larga parte. Più che tentare svolte “dure”, alla Kaczyński o alla Orbán, è più verosimile che Trump, pur mantenendo i suoi toni altamente sopra le righe, non modifichi il contenuto dei diritti civili, dei diritti “positivi” e “negativi” dei quali godono da decenni i cittadini statunitensi.

Avendo trattato gli aspetti più ideologici e contenutistici di Trump in altri articoli, in questi ci siamo occupati unicamente di presentare l’uomo pubblico nelle sue caratteristiche, nella sua pelle, e la sua compatibilità-incompatibilità con il sistema statunitense. Nonostante la vittoria e l’Inauguration Day, innumerevoli incognite gravano ancora sulla figura di Donald Trump, così singolare da non essere inquadrabile in forse nessuno schema. Non è possibile immaginare già i suoi schemi comportamentali, le sue vittorie e le sue sconfitte; non resta altro (e che molti analisti si mettano il cuore in pace!) che seguire con interesse i prossimi quattro anni e di trarne, a tempo debito, le conclusioni.

Leonardo Olivetti

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Nato a Brescia nel 1996, studioso del Medio Oriente, dell'Asia Orientale e dell'Europa Orientale.

UN COMMENTO

  1. Trump sarà sicuramente al di fuori delle caratteristiche dei presidenti che lo hanno preceduto, repubblicani compresi.
    Per ora le premesse non sembrano buone; sulla Palestina per esempio sembra sia schierato con i settori più retrivi sionisti e su Gerusalemme e sulla questione palestinese ( determinante per stabilire la pace in medio oriente) la sua linea non porta verso la pace ma semmai il contrario.
    Può anche darsi che la sua improbabilità possa poi obbligare Israele ad accettare accordi che fino ad oggi i sionisti non ne hanno assolutamente voluto parlare, ossia la creazione di uno stato palestinese nei territori occupati illegalmente dallo Stato di Israele nella guerra del 1967.
    Per cui non esaltererei troppo le novità di Trump ma restiamo a vedere le sue prime mosse.
    Da queste sapremo realmente da che parte porterà l’America.
    Le sue ipotesi di trovare una collaborazione con la Russia va vista nel concreto per esempio sulla questione dell’accordo nucleare con l’Iran che sembra voler stracciare oppure con la questione palestinese tagliate su quelle sioniste.
    Per ora le sue posizioni non indicano affatto una novità positiva, semmai il contrario.
    Stiamo a vedere.

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