In Europa il motore diesel, applicato non soltanto ai camion ma anche alle auto, ha sempre goduto di una certa fortuna. Le prime auto a gasolio nacquero già tra le due guerre, ed erano in particolare Mercedes e Peugeot, ma fu soltanto nel Secondo Dopoguerra che questo tipo di motorizzazione conobbe una vera e propria popolarità. Così Morris (Inghilterra, parte dell’allora British Motor Corporation), Borgward (Germania Ovest, al tempo anch’essa importante azienda di livello europeo), FIAT (con la 1400 diesel, molto amata da tassisti e rappresentati di commercio), cominciarono a farsi un nome in questo settore, affiancandosi a Mercedes e Peugeot, quest’ultimi costruiti da INDENOR, e nacque a quel punto una vera e propria scuola tecnica europea del diesel successivamente allargatasi, dagli Anni Settanta, a quasi tutti i Costruttori del Vecchio Continente: da Opel, filiale dell’americana GM, che fece molta fortuna col diesel delle Rekord e delle Ascona, a Volkswagen-Audi, che ebbe il merito d’introdurre il diesel leggero per eccellenza, ovvero quello debuttato sulla prima Golf e non solo, fino a quelli usati da Renault, per non parlare poi dei SOFIM adottati da FIAT e dei VM invece tipici delle Alfa Romeo, a quel tempo ancora di produzione IRI.
In linea di massima, però, le automobili a gasolio rimasero una rarità puramente europea, dato che negli Stati Uniti, per esempio, esse erano totalmente ignorate. Divennero però d’attualità con la prima crisi petrolifera, quella seguita alla guerra dello Yom Kippur del 1973, ed ulteriormente rafforzata da quella di sei anni più tardi, quando nel 1979 in Iran vi fu la Rivoluzione Islamica che depose lo Scià. A quel punto, anche negli Stati Uniti, si cominciarono a vedere le prime Mercedes e Peugeot alimentate a gasolio, e qualcuno riuscì a trasformarle in un oggetto di tendenza, al punto che poco importava se per fare il pieno ci si dovesse mettere in coda alle stesse pompe riservate ai grossi camion. La tendenza divenne talmente forte che, alla fine, anche i grossi colossi USA come GM, Ford e Chrysler dovettero cominciare a proporre versioni diesel delle loro grandi berline. Ma quest’ultime erano talmente fragili e poco longeve, dato che gli americani di diesel a quel tempo ben poco se ne intendevano, che passarono assai rapidamente in cavalleria.
Dagli Anni Duemila, comunque, il diesel ha avuto il suo trionfo tanto nell’una quanto nell’altra parte dell’Atlantico. L’introduzione dell’iniezione diretta, rapidamente arricchita dalle tecnologia common rail oppure ad iniettore pompa, ha reso il motore ormai turbodiesel competitivo col benzina anche in fatto di prestazioni, e ciò l’ha immediatamente avvicinato ad una grossa fascia di clientela che precedentemente lo snobbava. In Europa, dove il carburante è sempre costato più caro che altrove, l’affermazione del diesel è stata immediata e fino ad oggi, oltre ai 1400-1600 cc, solo una netta minoranza di auto a benzina veniva venduta rispetto a quelle a gasolio. Negli Stati Uniti l’affermazione del diesel è sempre stata più lenta e meno gradita, ma a causa del forte aumento del prezzo del greggio seguito alla crisi irachena in molti hanno comunque deciso di passare a questa forma di motorizzazione.
Oggi siamo ad un punto di svolta. Sebbene numerosi test dimostrino come, all’atto pratico, un diesel abbia ancora oggi un impatto ambientale ben inferiore rispetto ad un’auto elettrica, la tendenza è comunque quella di spingere verso una mobilità che non abbia troppo a che spartire con le fonti fossili e le relative emissioni. E’ dagli Stati Uniti, infatti, che proviene il fenomeno della Tesla, la macchina elettrica di lusso al cui esempio ben presto anche tutti gli altri Costruttori tradizionali hanno dovuto in qualche modo adeguarsi con proprie realizzazioni alternative, in coabitazione con l’ibrido ideato in primo luogo dai giapponesi di Toyota. Oltre che sull’elettrico, però, le autorità americane intendono spingere anche sul tradizionale motore a benzina, specialità di quel paese, e ciò ha innescato fino ad oggi non poche diatribe giudiziarie con molti Costruttori europei. E’ nato così lo scandalo Dieselgate, una faccenda prima di tutto politica, di cui a fare le spese è stata soprattutto la galassia Volkswagen, il maggior gruppo automobilistico del momento, insieme ad altri concorrenti europei. Curiosamente, i Costruttori americani, che pure hanno filiali in Europa e nel resto del mondo fortemente dipendenti dal diesel, non sono state attaccate da quell’inchiesta partita dalla motorizzazione americana.
Così il diesel ha perso rapidamente terreno negli Stati Uniti, con immediate conseguenze anche in Europa, grazie ad un agguerrito movimento d’opinione formatosi nel frattempo e particolarmente ostile al gasolio, visto come fonte di tutti i mali. Il problema, però, è che gran parte dell’industria italiana della componentistica dipende proprio dal diesel: un buon 8% del valore aggiunto incorporato nel prodotto BMW, Volkswagen-Audi e Mercedes proviene proprio dai nostri fornitori. A tale valore andrebbe aggiunto, poi, quello destinato a FCA e quindi ai francesi di Renault-Nissan-Mitsubishi e PSA, realtà che oggi non comprende più soltanto Peugeot e Citroen ma anche Opel.
Si tratta di una ferita inferta al nostro settore principale, la manifattura imperniata dalla PMI, la piccola e media impresa, un mondo che ha finora tenuto in piedi il “sistema Italia” mentre tante altre grandi e piccole occasioni, industriali e tecnologiche, venivano perse o ci venivano soffiate da altri. Debilitare questo nutrito e paziente mondo di piccole e medie imprese, dunque, è un ulteriore passo verso il nostro declino industriale e non solo. La guerra economica, commerciale ed industriale degli Stati Uniti a tutti gli altri grandi colossi del mondo, dall’Europa alla Cina, sta dunque reclamando le sue vittime, e non c’è da stupirsi se le prime saranno proprio quelle più esposte, vulnerabili e trascurate da coloro che avrebbero dovuto curarne la sicurezza ed il benessere, ovvero i loro ufficiali-governanti.
La Germania, a causa anche della politica dei dazi voluta da Trump, vedrà i suoi principali costruttori automobilistici trasferire sempre di più la loro produzione oltre Oceano, seguiti in questo dai grandi produttori della componentistica come Siemens e Bosch, anch’essi tedeschi. La mazzata, dunque, ci sarà anche per la Germania, che oltretutto e non a caso si trova oggi ad un passo dalla recessione. Ma, sempre per questo motivo, nell’attuale equilibrio geo-economico a livello europeo e mondiale, l’Italia rischierà di ritrovarsi nel ruolo non proprio gradito di “area di sfogo” per queste crisi e questi conflitti.
Potrebbe gentilmente dirci, nello specifico, quali test dimostrino un impatto ambientale inferiore del diesel rispetto all’elettrico? Grazie.
Gentilissimo Marco D’Angelo, se guarda su Google trova una discreta lista di articoli che ne parlano: alcuni propendono per una posizione, altri per quella contraria. In sostanza, comunque, allo stato attuale delle cose, l’energia elettrica con cui si ricarica un’auto elettrica è proveniente in grandissima parte da fonti fossili, le stesse che alimentano un’auto a benzina o a gasolio, con la differenza però che nel caso di quest’ultime si saltano tutti i passaggi intermedi, che comportano un’ulteriore perdita di energia. A voler essere onesti, anche la produzione di energia da pannelli fotovoltaici o pale eoliche ha grossi impatti in termini ambientali, dal punto di vista paesaggistico fino alla produzione inquinante di queste apparecchiature, e via dicendo. Ci sono anche in questo caso numerosi studi molto esplicativi. Alla fine, solo il nucleare può veramente permetterci di avere energia elettrica a basso costo e con un bassissimo impatto ambientale, e con un livello di sicurezza enormemente superiore a tutte le altre fonti di produzione di energia, come dimostrato anche in questo caso da numerose statistiche. Non si dimentichino, poi, a tal proposito, anche i notevoli progressi ultimamente compiuti dalla ricerca. Cordiali saluti, Filippo Bovo