Bettino Craxi

Il 19 gennaio del 2000 si spegneva il corpo già gravemente malato del leader socialista Bettino Craxi. Sedici minuti più tardi l’ANSA ne dava già la notizia: “Bettino Craxi è morto”. L’Italia si fermò, anche se con molto pudore: il peso che gravava sulla coscienza di molti italiani, a cominciare dai tanti politici che con Craxi avevano condiviso anni insieme salvo poi rinnegarlo nel momento della caduta, era difficilmente aggirabile.

Vi furono le parole di commiato e di dolore dei veri amici e dei familiari, come quelle degli accoltellatori di pochi anni prima. Solo fino a poco prima, nella consapevolezza dell’aggravamento delle condizioni di salute di Bettino Craxi, s’era parlato di farlo rientrare in Italia, dove avrebbe potuto ricevere cure migliori di quelle disponibili in Tunisia. Ma la proposta era stata cassata fra la netta ostilità di alcuni e l’inerzia connivente di altri.

Craxi era stato l’uomo che nel 1976 aveva assunto la segreteria del PSI, sostituendo Francesco De Martino e salvando il partito dall’estinzione a cui, allora, sembrava ineluttabilmente destinato. Aveva impresso al PSI, quasi fin da subito, una svolta decisiva, che l’aveva rinnovato tanto nella forma quanto nella sostanza: il garofano rosso, che i socialisti portavano all’occhiello al principio del Secolo, era divenuto il nuovo simbolo del partito, mentre al marxismo s’era affiancato, per poi assumere un ruolo nettamente preponderante, il socialismo di Proudhon. È tuttora attuale ed interessante leggere le note che a tal proposito Craxi pubblicò su “L’Espresso”, intitolate “Il Vangelo Socialista”.

Al “Compromesso Storico” di Berlinguer, che tuttora in un certo modo sopravvive nel PD (ultimo connubio fra ex comunisti ed ex democristiani) con frutti dal controverso bilancio, Craxi contrappose “l’Alternativa”. In occasione del sequestro Moro, fu il solo insieme a Pannella e Fanfani a proporre una trattativa coi rapitori. Il PSI, grazie anche al suo nuovo anticonformismo politico, cominciò a recuperare spazi di visibilità rispetto al PCI, di cui fino a quel momento era parso come una copia in scala ridotta e soprattutto molto più scalcinata.

Dopo le dimissioni di Leone, riuscì a far salire al Quirinale Pertini, che pure non aveva con lui rapporti del tutto idilliaci, ma che sarebbe comunque passato alla storia come il primo Presidente della Repubblica della storia italiana iscritto al PSI. E si trattò indubbiamente di un grande successo, perché il ricordo di Pertini come Presidente della Repubblica continua tutt’oggi ad essere dei migliori presso la maggior parte degli italiani. Pertini spianò la strada a Bettino Craxi nella corsa al governo: già nel 1979 gli diede un mandato esplorativo, che tuttavia non andò a buon fine a causa della contrarietà del PCI e della DC.

Il 21 luglio del 1983 (Craxi nel frattempo aveva visto crescere di quasi due punti percentuali i voti del PSI alle elezioni, cosa che lo legittimava a richiedere un ruolo di maggior importanza nel Pentapartito) divenne il primo Presidente del Consiglio socialista nella storia della Repubblica Italiana. E, come sappiamo, sarebbe stato anche l’unico ed ultimo.

Il governo Craxi, spinto dalla grinta politica del suo Primo Ministro, si trovò infatti molto spesso la strada sbarrata da un’agguerrita opposizione sia interna che esterna. Malgrado ciò, riuscì a portare a segno risultati di netto spessore. Per snellire le funzioni di governo, venne istituito il “Consiglio di Gabinetto”, che riuniva i principali ministeri e rappresentava tutte le forze politiche della maggioranza: era una riforma a costo zero, la prima di una lunga serie che Craxi aveva in mente e di cui parlava fin dalla fine degli Anni Settanta. Questo organismo, che i successivi governi non mantennero in vita, produsse durante la sua esistenza provvedimenti incontestabilmente rilevanti, come il nuovo Concordato con la Santa Sede ed il taglio di tre punti alla Scala Mobile. L’obiettivo di una grande riforma in senso presidenziale dello Stato, a cui Craxi infuse molte energie, non andò invece mai in porto stanti gli insufficienti numeri in Parlamento.

In politica estera Craxi volle essere un alleato degli Stati Uniti in un momento in cui la contrapposizione a livello mondiale era tutta fra Washington e Mosca. Un alleato ma non un suddito: concesse l’installazione dei missili Pershing e Cruise a Comiso, cosa che gli attirò la vibrante contrarietà di parte del PCI, ma in seguito, a Sigonella, fece capire a Reagan che l’Italia non era serva di nessuno.

La vicinanza di Roma agli Stati Uniti era solo una precisa scelta di campo, legata al particolare momento storico internazionale, e non una vocazione o un voto di servitù. Come molti di noi certo sapranno, Washington a Craxi quell’atteggiamento non glielo avrebbe mai perdonato.

Fin dalla sua elezione a segretario del PSI, Craxi aveva sostenuto i compagni socialisti sottoposti alle dittature in Grecia e in Sud America. Questa politica si mantenne anche negli anni del governo, conoscendo un grosso incremento che portò l’Italia a stringere rapporti profondi anche coi paesi laici e socialisti del Mondo Arabo, oltre che con la Somalia di Siad Barre e coi patrioti eritrei in lotta contro gli etiopici. Anche a costoro il PSI diede un doveroso sostegno.

Sarebbe poi davvero inopportuno non ricordare il sostegno all’OLP di Yasser Arafat e alla causa palestinese. Molti dissapori col PRI, apertamente filo-americano, e con parte della DC, è inutile nasconderlo, furono dovuti proprio a questo. Rimarrà scolpito sulla pietra della storia il discorso a sostegno della causa palestinese che Craxi fece in Parlamento.

Craxi ebbe un ruolo importante ai tempi dell’operazione “Colorado Canyon”, con cui Stati Uniti ed Inghilterra tentarono d’assassinare Gheddafi bombardando Tripoli e Bengasi nel 1986, evento a cui sarebbe seguito il lancio di due missili Scud su Lampedusa come rappresaglia libica. Carte recentemente desecretate svelano come sia stato proprio Craxi, informato dell’operazione, a preavvertire Gheddafi permettendogli di mettersi in salvo.

Ebbe un ruolo di primo piano anche l’anno successivo, nel cambio di governo in Tunisia. Il grande Padre della Patria Habib Bourguiba, a causa dell’età, non era più in grado di controllare pienamente la situazione ed il paese stava scivolando nel caos. A Parigi si progettava già di rimpiazzarlo con una figura più compiacente, in grado di riportare Tunisi nell’orbita francese. Craxi sventò l’operazione aiutando Ben Alì, da appena un mese nominato primo ministro di Bourguiba. Anche questo sgambetto i francesi non glielo avrebbero perdonato mai.

Possiamo quindi facilmente comprendere quanti volessero la testa di Bettino Craxi e del PSI alla fine degli Anni Ottanta. Caduto il Muro di Berlino, lui ed il suo partito, insieme a tutto il mondo politico della Prima Repubblica, non erano più indispensabili né per gli Stati Uniti né per gli altri grandi paesi europei a cui un’Italia sempre più autonoma dava semplicemente fastidio.

Fino a quel momento Craxi ed il Pentapartito erano stati il male minore, il rospo da ingoiare di fronte all’ancora meno simpatica prospettiva di vedere l’Italia governata dal più grande partito comunista dell’Occidente, il PCI. Ma ormai il campo socialista non esisteva più e lo stesso PCI, già da ben prima della sua scomparsa, aveva assunto posizioni sempre più moderate e filo-occidentali. Con la nascita del PDS, il pericolo s’era ormai del tutto estinto.

A quel punto la nuova sinistra appariva come un’alternativa seducente ed appagante agli occhi di Washington e dei suoi alleati: il PDS doveva tutto, per sopravvivere, ai nuovi padroni e avrebbe fatto la politica che essi volevano, senza quelle pretese d’autonomia e quelle ribellioni che invece caratterizzavano Craxi ed il suo PSI.

Partì così l’operazione “Mani Pulite”, a cui la sinistra diede una forte copertura politica (il premio, per il PDS, sarebbe stato quello di prendere il posto del PSI una volta distrutto, acquisendone così anche la centralità che aveva nella politica italiana). “Repubblica” e tutto il mondo mediatico affine a quella sinistra assicurarono la copertura mediatica, in questo ben aiutati anche dalle nuove destre come la Lega Nord o dai vecchi arnesi che comunque potevano sempre ritornare utili come il MSI.

Craxi lottò accanitamente, ma non servì a nulla. Nell’aprile del 1993 tenne il suo ultimo discorso in Parlamento, dove invitò chi non aveva peccato a scagliare la prima pietra. Più che un discorso, un testamento politico. Il suo mondo, ormai, non esisteva più: la Prima Repubblica stava tramontando velocemente, i nuovi padroni (o proconsoli) del paese erano già all’orizzonte, ed il PSI appariva già ridotto in macerie.

Come andò a finire lo sappiamo tutti: alla fine Craxi fuggì in Tunisia (gli avevano ritirato il passaporto “per pericolo di fuga”, ma questi s’era già allontanato dall’Italia). Lì visse per altri sei anni, in precarie condizioni di salute. Soffriva di cuore, di gotta e da molti anni era malato anche di diabete. A tutti questi mali ad un certo punto s’aggiunse anche un gravissimo tumore al rene.

Quando si tennero i funerali di Craxi, presso la Cattedrale di Tunisi, la delegazione del governo italiano (il Primo Ministro, a quel tempo, era D’Alema), formata da Lamberto Dini e da Marco Minniti, venne presa a monetine da una pattuglia di vecchi socialisti. Erano diessini, ma anche leghisti e missini, coloro che nel 1993 avevano tirato le monetine a Craxi davanti all’Hotel Raphael. Una restituzione, più che una vendetta, verso coloro dai quali il Socialismo italiano non accettava niente, dato che con essi non aveva fortunatamente proprio nulla da spartire.