Storicamente, si parla di “splendido isolamento” per intendere quel periodo, nel XIX Secolo, in cui l’Inghilterra cercò sempre d’evitare qualunque coinvolgimento nelle varie questioni e problematiche dell’Europa continentale per concentrarsi piuttosto nello sviluppo del suo grande impero coloniale, allora in vertiginosa ascesa. Erano gli anni in cui l’Inghilterra deteneva il ruolo di prima potenza industriale ed economica al mondo, anche se nuovi concorrenti si stavano affacciando, ben determinati ad intaccarne la supremazia con la loro crescita di non minor conto (Germania, Stati Uniti), affiancandosi agli storici concorrenti di sempre (Francia, Russia). I vari sviluppi della storia portarono Londra ad avere, con questi suoi sia nuovi che vecchi “interlocutori”, rapporti quando amichevoli, quando bellicosi, ma segnarono comunque anche la fine di quello “splendido isolamento” ed il crescente coinvolgimento dell’Inghilterra negli affari continentali, che ovviamente conobbe un forte incremento nel momento in cui la grande potenza industriale del passato iniziò ad affievolirsi e lo smisurato impero coloniale, analogamente, a disgregarsi.
Eppure, malgrado i rapporti un po’ rocamboleschi con l’Europa continentale ed in particolare con le istituzioni comunitarie sorte nel Secondo Dopoguerra (negli Anni Sessanta i tentativi britannici d’entrare nell’allora MEC vennero ripetutamente ostacolati dall’ostruzionismo della Francia di De Gaulle, e l’arrivo di Margareth Thatcher alla fine degli Anni Settanta inaugurò una stagione dove l’amore britannico per l’Europa unita conobbe un certo raffreddamento), i cittadini inglesi non hanno mai dimenticato davvero quella lontana epoca che, in buona parte, coincideva anche con un’altra epoca amata anche da tanti non inglesi: ovvero quella “vittoriana”, allorché la longeva ed indimenticata Regina Vittoria disponeva di un Impero su cui, come si soleva dire, avrebbe potuto camminare praticamente all’infinito. Forse anche per questo l’Inghilterra, dentro l’Unione Europea, ha sempre preferito restarci con un solo piede, tenendo accuratamente l’altro al di fuori; tant’è che, per fare l’esempio forse più celebre, lo scontro fra l’allora premier Tony Blair ed il suo alter ego Gordon Brown sull’adesione all’imminente Euro portò alla fin fine Londra a tenersi stretta la Sterlina.
L’idea che l’UE fosse più una rimessa che un guadagno ha accompagnato buona parte dell’opinione pubblica britannica in tutti questi anni, alimentando sempre una nutrita pattuglia di rappresentanti “euroscettici” (vi ricordate? a quel tempo si chiamavano ancora così) tanto nel Parlamento nazionale quanto in quello europeo. Alla fine, come tutti sappiamo, s’è arrivati al referendum sulla Brexit nel 2016, vinto in parte a sorpresa ed in parte no proprio da coloro che, di continuare a restare dentro l’UE, non ne volevano davvero più sapere. Il suo esito ed il temporeggiamento nell’assumere le procedure politiche che comportava sono costati la testa a ben due premier conservatori, David Cameron e Theresa May, all’epoca visti come astri nascenti dei Tories ed oggi invece relegati al passato senza troppi onori.
Boris Johnson, l’outsider conservatore a cui almeno inizialmente sarebbe parso improbabile che potesse mai un giorno toccare il ruolo di “numero uno” sia a livello di partito che di governo, ha alla fine raccolto il testimone di Theresa May, il cui intento di conquistare una “soft Brexit” a tutti i costi aveva conosciuto ripetuti fallimenti, ed ha invece impresso una decisa svolta in direzione della “hard Brexit”. I numeri in Parlamento non bastavano ed una parte del suo stesso partito, insieme a liberali e laburisti, lo boicottava clamorosamente. Così, ritornata al voto, l’Inghilterra l’ha riconfermato con una maggioranza che, data la latitudine, forse non è il caso di definire “bulgara”, ma poco ci manca: e a quel punto s’è subito capito che gran parte degli ostacoli alla Brexit potevano ormai essere considerati solo come un ricordo.
Tutti abbiamo visto, il 30 ed il 31 gennaio scorsi, il voto all’Europarlamento che ha confermato ed ufficializzato l’hard Brexit che Johnson, del resto, aveva già unilateralmente ribadito: un voto che ha diviso l’emiciclo, a seconda dei vari gruppi politici d’appartenenza, in una festa e in un funerale al tempo stesso; e, successivamente, la rimozione della bandiera britannica fino a quel momento esposta insieme a quella dell’UE e delle altre 27 nazioni che ne fanno parte, in tutte le varie sedi ed istituzioni comunitarie. In alcuni casi, per esempio dove la bandiera era esposta all’esterno, la sua rimozione ha colpito l’attenzione dei numerosi spettatori; ma, negli spazi interni, ciò è avvenuto in modo mesto e taciturno, da parte di due compassati funzionari che l’hanno poi ripiegata e portata via, anche in questo caso con un silenzio emblematico.
Ora, cosa succederà? Qualcuno, secondo un copione a cui assistiamo fin dal 2016, paventa già scenari catastrofici, legati soprattutto alla fine di certe sovvenzioni comunitarie di cui beneficiavano alcune categorie produttive come gli agricoltori, insieme agli studenti; altri, al contrario, continuano ad esaltare un futuro descritto e promesso come una nuova Età dell’Oro. Più prudentemente, c’è da pensare che la Brexit avrà un prezzo che non sarà quello del catastrofismo paventato da coloro che, su entrambe le sponde della Manica, non l’accettano; e nemmeno sarà soltanto un copioso fluire di facili ricchezze. Il prezzo sarà quello del riaccendersi dei ricorrenti focolai indipendentisti, soprattutto in Scozia ma anche in Irlanda del Nord, dove la corrente pro-UE è prevalente. Gli indipendentisti, non a caso, sono già da tempo sul piede di guerra ed un nuovo referendum per l’indipendenza in Scozia, per esempio, potrebbe trovare stavolta quella maggioranza che l’ultima volta invece non ottenne per pochi punti percentuali, ed incontrare un forte sostegno dall’Europa continentale. Certo, se anche stavolta, malgrado tutto, gli indipendentisti perdessero, la strategia UE d’indebolimento dell’Inghilterra subirebbe una dura battuta d’arresto. Dato l’elevato rischio, in tanti saranno titubanti prima di spingere il confronto con l’Inghilterra sino a quel livello. Ma, se una simile strategia risultasse invece vincente, a quel punto non sarebbe difficile immaginarsi un suo prosieguo volto anche a riportare la stessa Inghilterra, a quel punto indebolita, nuovamente in seno all’UE.
Ipotesi lontane? Al momento, di sicuro; ma c’è comunque chi ci spera e ci crede, e che soprattutto ci lavora sopra. Di certo, la Brexit stimolerà fin da subito il rafforzamento della storica affiliazione fra Londra e gli Stati Uniti, che a questo punto ne diventeranno il partner privilegiato, oltre a rilanciare le attenzioni dell’Inghilterra verso il suo ex impero coloniale, col quale comunque i rapporti sono rimasti sempre molto stretti malgrado gli anni a braccetto con l’UE, che ne hanno un po’ intaccato l’importanza e l’intensità. Il Commonwealth delle Nazioni, ovvero il Commonwealth britannico, riunisce 53 nazioni nel mondo, 16 delle quali hanno come loro capo di Stato la Regina Elisabetta; e, tra i tanti nomi, spiccano soggetti politici, demografici ed economici di certo non trascurabili, dall’Australia al Canada, dall’India al Pakistan, dal Mozambico alla Nigeria, da Singapore al Sudafrica, dalla Nuova Zelanda alla Giamaica, in tutti i continenti del mondo. Se il legame economico fra tutti questi paesi e l’Inghilterra s’è indebolito negli anni di legame all’UE, adesso è di sicuro in momento più propizio ed opportuno per rilanciarli; e, neanche a farlo apposta, l’occasione giusta per cominciare a farlo potrebbe essere il prossimo 9 marzo, secondo lunedì del mese, quando come da tradizione tutti e 53 i paesi si riuniranno per celebrare la “Giornata del Commonwealth”. C’è da credere che, durante quella grande “rimpatriata”, il premier britannico sarà guardato, dagli esponenti degli altri paesi, con un interesse un po’ più alto del solito.