
Uno dei più assurdi paradossi del nostro tempo è la coesistenza nello spirito europeo di sentimenti contrapposti nei confronti della democrazia in senso stretto, ovvero nella sua esplicazione pratica.
Da un lato, infatti, si assiste alla continua sublimazione dell’ideale democratico, che ormai viene considerato come paradigma fondante dell’identità europeo-occidentale. Dall’altro – con un atteggiamento forse inconsapevole, ma di certo schizofrenico da parte dei campioni della democrazia – riscontriamo, soprattutto in concomitanza di eventi referendari dagli esiti inattesi, un arrogante disprezzo per ogni forma di espressione democratica che possa in qualche modo contrastare la volontà dell’establishment.
Ovviamente questo disappunto è manifestato in maniera sibillina, tramite analisi parziali e tendenziose. Si fanno paragoni assurdi e anti-storici, come Saviano, che equipara, con presunzione, l’espressione popolare del referendum britannico all’esaltazioni plebiscitarie dei regimi di Hitler e Mussolini. Oppure si preferisce, con commenti sprezzanti, sminuire, fino a condannare lapidariamente, il voto popolare, considerato come mero frutto di ignoranza e disagio (si veda il caso britannico) o di incoscienza e demagogia (si guardi al referendum greco dello scorso anno). Questo è il “paradosso democratico”, l’antinomia concettuale da cui fatica a liberarsi l’ideologia “democraticista”, che esalta la volontà popolare fintanto che coincide con la volontà dominante.
Tutto ciò, proiettato sulla scena europea, ci ricollega all’effettivo “deficit democratico” che ha contraddistinto le istituzioni dell’Unione Europea fin dalla sua genesi, alimentando perplessità e distacco nei popoli europei. Sebbene si sia tentato – non con molta fermezza ed efficacia probabilmente – di colmare il gap partecipativo, tramite ad esempio il coinvolgimento popolare nella votazione per il Parlamento Europeo, lo scollamento tra popoli ed istituzioni si è amplificato negli ultimi tempi. Infatti, negli ultimi due anni, con il referendum greco lo scorso anno e soprattutto oggi con quello britannico, sono stati inferti pesanti colpi alle convinzioni europeiste e al processo di integrazione europea, che subisce probabilmente la sua più grande battuta d’arresto da 65 anni a questa parte.
Nondimeno appare risibile il tentativo di propagandare la catastrofe imminente per la Gran Bretagna. Si vorrebbe quasi far passar l’idea che non possa esistere niente al di fuori dell’Unione Europea, se non fame e distruzione. Anzi la paura peggiore per molti sembra essere il crollo della Borsa, che tra l’altro sale e scende quotidianamente. Poco importa dell’economia reale, della disoccupazione, del disagio sociale e della crisi del welfare state. L’importante sono la Borsa e il progetto Erasmus, le poche cose che sembrano davvero starci a cuore in queste ore post-Brexit.
La realtà è che tutte queste tragiche ipotesi rientrano nella massiccia propaganda mediatica che ci tedia ormai da settimane. Squarciando il velo dell’ipocrisia notiamo che nessuna apocalisse è all’orizzonte. Come in tutti gli eventi storici, questo referendum si porterà con sé conseguenze positive e negative, ma le catastrofi sono ben altro e rimane il fatto che si possa parlare solo di ipotesi, poiché nessuno ora può sapere con precisione cosa accadrà. Piuttosto dovremmo dare uno sguardo anche alle conseguenze politiche di tale referendum.
L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea segnerebbe una svolta non solo per l’evento in sé, ma anche per il fatto che sarebbe un precedente storico non indifferente. Fino a qualche tempo fa, nonostante il sentimento euroscettico diffuso in tutta Europa, sembrava davvero impossibile o quantomeno altamente improbabile anche solamente immaginare uno scenario simile, in cui uno dei maggiori paesi europei si pronunciasse a favore dell’uscita dall’UE.
Dopo essere stati tra i primi a tagliare la testa ad un monarca (il re Carlo I Stuart, nel 1649), hanno scelto ora di essere i primi ad amputare un arto all’Unione Europea. Oltre al legittimo malcontento, occorre notare anche che gli inglesi sono sempre stati gelosi della propria sovranità e giurisdizione e non è un caso che non figurino tra le nazioni fondatrici della Comunità Europea. Non si stanno di certo immolando per salvare il continente europeo. Anzi la competizione, seppur taciuta, con le altre potenze europee è sempre stata vivida, così come il distacco, non solo fisico, dall’Europa continentale (si ricordi Charles De Gaulle e la sua diffidenza nei confronti della Gran Bretagna, vista dal presidente francese come una minaccia per l’equilibrio geopolitico europeo).
L’interesse nazionale è un elemento spesso taciuto, ma è ancora vivo sotto la coltre europeista. Non si escluda nemmeno la possibilità che facciano pagare agli inglesi lo scotto dell’uscita con attacchi speculativi. Difatti potrebbe essere un problema per l’eurocrazia se la Gran Bretagna dimostrasse che è effettivamente possibile vivere senza sventure apocalittiche fuori dall’UE. Inoltre, sarà interessante osservare nei prossimi tempi l’evoluzione dei rapporti bilaterali tra Gran Bretagna (o di quel che ne rimarrà da eventuali referendum indipendentisti) nei confronti delle potenze europee ed internazionali.
Per quanto riguarda i paesi dell’UE, il referendum sicuramente rafforza le posizioni dei movimenti euroscettici, tant’è che già in Francia ed Olanda si sta vagliando la possibilità di riproporre un referendum simile. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una cesura storica non solo per la Gran Bretagna, ma per tutta l’Europa.
Non possiamo esser certi di come andrà a finire negli altri paesi, considerando che il contesto inglese è differente da tutti gli altri. Di certo ora l’UE è sotto scacco e se continuerà ad indugiare o farà la mossa sbagliata, potrebbe pian piano crollare a colpi di quella democrazia che, almeno in teoria, avrebbe dovuto essere uno dei capisaldi dell’Unione, mentre alla prova dei fatti è venuta meno troppo spesso.
Alessio Bava