Indubbiamente ci vorrà ancora un po’ di tempo per capire come finirà il braccio di ferro fra la Troika (Ue, Bce e Fmi) e Tsipras, anche se quest’ultimo ha avuto quel consenso popolare di cui aveva bisogno per far valere con forza le ragioni della Grecia. La vittoria del No ai “figli di Troika” è stata netta, anzi decisamente maggiore del previsto. In ogni caso, per la piccola e, tutto sommato, fragile Grecia la strada è tutta in salita. Del resto, il governo greco non ha mai sostenuto che il suo obiettivo è quello di fare uscire la Grecia da Eurolandia o addirittura dalla Ue, consapevole pure del fatto che per i greci “rimanere in Europa” è di fondamentale importanza. Si sa, infatti, che tuttora per la Grecia il nemico “numero uno” è la Turchia e che di conseguenza i greci considerano l’Ue e la stessa Nato come una “barriera difensiva” essenziale contro la minaccia turca. Questo non significa necessariamente che la concezione politica di Tsipras e Syriza sia esente da critiche o che la strategia del governo greco sia talmente chiara da non suscitare dubbi o interrogativi di alcun genere.

Da qui però a sostenere che dietro la scelta di Tsipras vi siano certi ambienti anglo-americani desiderosi di mettere i bastoni fra le ruote alla Germania ve ne corre parecchio. Se questa non è fanta(geo)politica poco ci manca. Peraltro, chi fa tale ipotesi non considera che è proprio la “timida” apertura della Grecia alla Russia (e in particolare l’accordo tra Atene e Mosca sul gasdotto Turkish Stream, che dovrebbe sostituire il gasdotto South Stream visto dagli Usa come il fumo negli occhi) ad avere scatenato i media degli oligarchi occidentali contro la Grecia. (1) Comunque sia, anche in questo caso (assai poco probabile) si sarebbero dovute sostenere le ragioni del No alla Troika. La ragione è semplice. Senza la Troika non è in pratica possibile per gli Usa articolare la propria strategia in Europa. In definitiva, è evidente che per gli europei opporsi alle decisioni della Troika è il solo modo possibile di opporsi agli Stati Uniti. D’altra parte, anche se la Russia e la Cina possono aiutare economicamente la Grecia, è ben difficile che siano disposte a rischiare uno scontro con le potenze occidentali per la Grecia. Né si capisce, tenendo conto che la Grecia è un Paese membro della Nato, come potrebbero aiutarla sul piano politico-militare o contro delle quinte colonne atlantiste, che, com’è logico, sono presenti in tutte le più importanti istituzioni greche (apparati coercitivi e servizi di sicurezza inclusi)

Quanto al referendum, è pacifico che le decisioni che contano le prendono sempre delle élites, ma il consenso popolare in certi passaggi storici è indispensabile. Per questo le masse vanno manipolate o meglio le si deve saper manipolare o perlomeno “orientare”. Che farà Tsipras lo sanno solo i veggenti, ma la vittoria del No prova che quando sono in gioco i bisogni primari delle persone anche il potere dei media è decisamente minore. Insomma, Tsipras adesso può pure andare negli Usa a chiedere che la Grecia diventi uno Stato americano, sostituire la lingua greca con quella inglese e demolire il Partenone per far posto a un gigantesco McDonald’s, ma quel che conta davvero è comprendere il significato politico di questo “Oki” in una prospettiva europea. Ovviamente non vogliamo affermare che le decisioni che il governo greco prenderà siano irrilevanti, soprattutto per il popolo greco. (Comunque, è probabile, benché non affatto sicuro, che si seguirà la politica del bastone e la carota concedendo alla Grecia “una qualche” ristrutturazione del debito, onde non ignorare del tutto il responso delle urne; se invece la Grecia di Tsipras saprà rafforzare ulteriormente il suo legame con la Russia e la Cina, tanto meglio per chi combatte contro l’euroatlantismo). Ma il significato politico che più rileva di questo referendum è la conferma che in Europa si stanno aprendo “spazi politici”, che richiedono nuove categorie politiche e culturali, anziché concentrarsi sulla mediocrità (se non peggio) dei politici che si fanno interpreti di questa nuova “domanda politica”, quasi che tutto si riducesse a sapere che farà Tsipras, o Grillo, o Salvini o la Le Pen od Orban e così via. Mentre quello che dovrebbe interessare davvero sono i fenomeni sociali che hanno dato la possibilità a costoro (peraltro neppure tutti personaggi mediocri) di emergere come politici.

Al riguardo, si dovrebbe avere ben chiaro che sottrarre l’Italia e in generale il continente europeo alla morsa dei mercati e delle politiche criminali della Troika e smarcarsi dagli Stati Uniti sul piano geopolitico sono due facce della medesima medaglia. La stessa questione di Eurolandia dovrebbe essere compresa alla luce di questo nesso tra geopolitica e trasformazione sociale, onde evitare il cosiddetto “cretinismo economicistico”. Vale a dire che sarebbe necessario tornare a mettere al centro della attenzione i problemi reali delle persone (non solo economici). L’“economia di carta” è governata da logiche di potere che ben poco hanno a che fare con i problemi della stragrande maggioranza della popolazione. Statistiche, cifre e tabelle poco o nulla spiegano della concrete dinamiche storiche e geopolitiche. O qualcuno pensa davvero che si possa risolvere la questione siriana o quella ucraina con formule e diagrammi? Peraltro, come scrive Pierre Bourdieu: «La scienza che si chiama “economia” riposa su un’astrazione originaria, che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale nel quale ogni pratica umana è immersa». (2) Si tratta cioè di una sorta di “finzione produttiva”. Essenziale è allora comprendere che cosa si produce , come si produce e perché si produce. Se ci si dimentica di questo è inevitabile andare incontro a catastrofi generate da forze autodistruttive che nessuno potrà più “governare”. Come ci ricorda Karl Polanyi, agendo senza tener conto dei bisogni fondamentali degli esseri umani e di quei legami comunitari senza i quali nessuna società può sopravvivere nel “lungo periodo”, «l’intero meccanismo è destinato a incepparsi, ponendo l’umanità di fronte all’immediato pericolo della disoccupazione di massa, dell’interruzione della produzione, della perdita dei redditi e, conseguentemente, dell’anarchia sociale e del caos». (3)

Imperativo quindi, al di là di qualsiasi altra considerazione, è non ostacolare quelle forze che cercano di evitare che i popoli europei finiscano nel tritacarne euroatlantista. D’altronde è noto che le rivoluzioni coronate da successo nel Novecento si sono verificate solo in Paesi extraeuropei, con un settore industriale ancora poco sviluppato e in condizioni storiche che vedevano masse di contadini in armi. (Né questo è smentito dal successo del fascismo italiano, che non prese il potere ma si alleò con il potere, agendo poi, di fatto, come un movimento imperialista e nazional-capitalista). Nulla quindi di più lontano dalle condizioni dei Paesi industriali avanzati. Qui un radicale mutamento politico e sociale richiede con ogni probabilità percorsi diversi. Certo non è (solo) con la dialettica parlamentare che si possa davvero cambiare qualcosa. Eppure il consenso delle masse popolari è decisivo per chi voglia rovesciare i rapporti di forza esistenti. Sotto questo aspetto, il risultato del referendum indetto da Tsipras può incoraggiare e far crescere politicamente quei movimenti che in diversi Paesi europei sono nettamente contrari alla Troika. Da qui dunque si dovrebbe ripartire se si vuole che il vento euroscettico che sta soffiando sul nostro continente dia vita a qualcosa di nuovo e non si limiti ad una generica protesta contro l’euro.

Nessun “buonismo” quindi, più o meno peloso. Né pacifismo imbelle né ingenua difesa della “democrazia”. Anzi, rigorosa e lucida determinazione nel combattere ed eliminare tutti quei gruppi di interesse che sulla riduzione della politica a pubblica amministrazione fondano il loro potere. Nella situazione attuale non vi è altro da fare che favorire un populismo “duro” e “cattivo”, facendo leva sul malcontento popolare per le politiche di Eurolandia e la subalternità dell’Europa alle scelte strategiche dei centri di potere euroatlantisti. Eppure questo non basta. Bisognerebbe agganciare la protesta popolare ad una visione geopolitica coerente e che tenga conto della lotta sulla scacchiera globale. Il populismo di per sé è cieco e rischia di innescare reazioni a catena che possono favorire anziché danneggiare il sistema attuale fondato sul predominio dei cosiddetti “mercati” e del polo atlantico. In ogni caso, solo nella lotta politica e nella trasformazione del populismo in una autentica forza social-rivoluzionaria si deve vedere la “chiave strategica” per evadere dalla gabbia di un Occidente che è esattamente l’opposto di quel che dice o perfino crede di essere. In quest’ottica la vittoria del No nel referendum svoltosi in Grecia domenica scorsa è solo una battaglia vinta in una guerra che sarà lunga e difficile. Ci si deve pertanto preparare ad assistere a tradimenti, voltafaccia repentini, agguati e imboscate di ogni specie. Ma una vittoria è una vittoria, non una disfatta.

1. https://www.ilgiornale.it/news/economia/accordo-grecia-russia-gasdotto-turkish-stream-1142512.html
2. Pierre Bourdieu, Le strutture sociali dell’economia, Asterios, Trieste, 2004, p. 17
3. Karl Polanyi, Per un nuovo Occidente, Il Saggiatore, Milano , 2013, p. 274.