
Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari al mondo, si attende una crescita globale per il 2016 del 3,6%, in crescita rispetto al 3.2% del 2015, trainata quasi interamente da tre paesi: Cina, India e Indonesia. Come riportato nella figura di seguito, è evidente il rimbalzo della Russia, con una crescita molto superiore alla stima del 0,2 per cento prevista FMI.
Nonostante il rallentamento della crescita cinese e la svalutazione monetaria della scorsa estate, si registra un diffuso ottimismo riguardo l’apporto del dragone asiatico all’economia globale. Goldman Sachs è convinta che sarà, infatti, la crescente classe media cinese con la sua cospicua domanda a trainare l’economia non solo della Cina, ma di riflesso anche nel resto del globo. Tali ottimistiche previsioni sono peraltro condivise dalla nota società di consulenza americana McKinsey & Co.
Se nelle campagne elettorali americane, la ricetta per la crescita è identificata nei tagli fiscali, il governo di Pechino riconosce nel consumatore la chiave per il rilancio del proprio mercato. I leder della Repubblica Popolare cinese hanno dichiarato infatti, che solo sostenendo la domanda interna, sarà possibile garantire un effetto virtuoso e sostenibile sull’intera economia.
Dopo l’abolizione della politica del figlio unico, la Cina è pronta a rilanciarsi attraverso importanti riforme: È in programma, non solo la revisione del sistema pensionistico, ma anche l’introduzione di una più ampia copertura assicurativa per le spese sanitarie. I dati pubblicati da McKinsey & Company dicono che la spesa sanitaria cinese ammonterà nel 2020 a 1.000 miliardi di dollari, quasi triplicata rispetto ai 357 miliardi spesi nel 2011. Questa misura, in primis, consentirà un significativo risparmio alla voce spesa sanitaria in capo alle famiglie, che avranno di conseguenza maggiore propensione alla spesa per consumi.
La famiglia media cinese risparmia fino al 40 per cento del suo reddito, secondo il National Bureau of Statistics cinese: dati che stridono, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, se confrontati con quelli delle famiglie negli Stati Uniti (5,2%) e Giappone (1.8%).
I depositi bancari cinesi, ad oggi, rendendo più del tasso di inflazione restano la collocazione privilegiata per i piccoli risparmiatori, i quali intendono tutelare il proprio potere d’acquisto per il futuro. Seppur in Cina il risparmio sia più che altro una questione culturale (evidenziando tassi di risparmi molto più alti rispetto gli altri BRICS), sono allo studio misure atte ad incentivare ulteriormente la spesa privata: con la soppressione del tetto minimo di interesse sui depositi bancari, infatti, la remunerazione di questi patrimoni quiescenti tenderà a scendere, si risparmierà di meno e le risorse circoleranno maggiormente, stimolando la crescita.
Una nota di McKinsey & Company, risalente a qualche mese fa, spiegava come tv e giornali, preoccupati per la contrazione della crescita cinese e per la restrizione dei consumi, interpretassero in modo sbagliato i dati forniti dagli uffici di statistica. Seppur il rapporto consumo/PIL cinese sia diminuito da circa il 51 per cento del 1985 al 43 per cento nel 1995, al 34 per cento nel 2013, la compagnia newyorkese risponde con grande fermezza: “Don’t worry about this stuff” (“non preoccupatevi di questa cosa”).
Proseguendo nella lettura, infatti, si evidenzia che dal 2000 al 2010, la dimensione dell’economia cinese è più che raddoppiata. I consumi sono cresciuti da circa 650 miliardi di dollari a quasi 1.400 miliardi. Indipendentemente dal suo rapporto con il PIL, i consumi della Cina, in termini assoluti, sono cresciuti più velocemente che in qualsiasi altro paese.
Non sfugga che in ogni economia, a prescindere dalla propensione al risparmio, tanto più i salari sono bassi tanto più la quota consumi risulterà alta, poiché la parte di introiti necessari a garantire una dignitosa sopravvivenza non può scendere indefinitamente oltre una certa soglia; al crescere della disponibilità economica, di fatto, se da un lato è possibile affrontare spese prima impossibili, dall’altro una quota di surplus può essere accantonata per il futuro: qui sta la lungimiranza del governo di Pechino, che punta a stimolare l’economia non attraverso inutili e sanguinose manovre monetarie o folli dogmi di austerità, bensì alimentando la crescita di quel ceto medio che coi suoi consumi può fungere da volano per la crescita interna e non solo.
Il tono entusiastico utilizzato dalla società di consulenza più influente al mondo quasi sorprende. Gli autori della pubblicazione, Jeffrey Towson e Jonathan Woetzel invitano, quando si tratta di consumi, a tenere in considerazione l’impressionante dato proveniente dal reddito famigliare. Quest’ultimo in Cina è enorme, probabilmente sopra ai 5.000 miliardi di dollari l’anno. In più, non figurando vasta parte del reddito nei dati ufficiali per oggettive difficoltà nella stima del sommerso, possiamo indentificarlo come una soglia minima che di fatto, basta a sovrastare i corrispettivi dati provenienti dagli altri BRICS.
È ormai tesi condivisa che un’ulteriore e decisiva spinta propulsiva all’economia del Paese verrebbe data da una revisione dei salari minimi, che stanno ancora penalizzando i lavori meno qualificati. Questo intervento, insieme alle riforme agrarie (avviate per ora solo come programmi pilota) accrescerebbero il reddito delle popolazioni rurali, cogliendo in pieno le potenzialità dello Stato asiatico e fugando ogni dubbio in merito alla sua crescita. Ci sono dunque ampi margini di miglioramento, che se sfruttati a pieno, eleverebbero la Cina a prima economia del mondo in un tempo non lontano.
Luca Caselli