Anzitutto, una premessa: Stefano Leo non è la prima vittima di un lungo stillicidio che si esprime in usanze ancestrali, ancor prima che in frasi o radicalismi più o meno concreti. Leonardo Lo Cascio venne ammazzato a Prato nel 2017 con un cacciavite, David Raggi venne ucciso a Terni nel 2015 con una bottiglia rotta. Stefano è solo l’ultima vittima di una storia dai vari precedenti.
Ma non è questo che ci interessa sottolineare nella vicenda di Stefano Leo. Probabilmente solo il sottoscritto vede una tragicomica casualità in quel coltello rosa usato per l’omicidio di Stefano, e ci mancherebbe, eppure la foto di quel coltello colorato e brillante continua ad emanare uno strano senso di alienazione. La società neoliberista e globalista ci ha abituato alla retorica del multicolore. Sembra che quando tutto sia bello e colorato, sia pure più innocuo: anche un coltello. Ma, come abbiamo visto, non è esattamente così.
Ci troviamo in unico mondo colorato e libero (liberista, invero, più che libero), nel quale nessun contrasto o malessere è possibile. Un mondo felice. La felicità. Mai, negli ultimi 50 anni, l’Italia è stata così infelice, e non a caso mai si è parlato così tanto, sempre per bocca degli spin doctor del nuovo mondo globale, di “felicità”, “bellezza”, “resilienza”. Centinaia di guru spirituali e di motivatori politici o aziendali girano per il Paese in cerca del “bello” per mostrarlo al pubblico, nascondendogli il “brutto”. Per mostrare un mondo, quello libero e “open”, in cui chiunque può trovare la propria felicità. Non parliamo poi di resilienza. Quest’ultimo termine è diventato una panacea per giustificare i massacri sociali messi in atto dai loro referenti superiori. Siate ubbidienti di fronte al bastone, siate felici. Automiglioramento, adattamento, integrazione, fare gruppo, “la parola crisi in cinese significa opportunità” (una bufala che non è stata mai sbufalata dai debunker globalisti), e così via. Tutti felici, e con un futuro. Precario, globalizzato, sradicato, ma felice. E tutto smentito, puntualmente, da una coltellata alla gola. Importare infelicità, disagio e odio, è l’esatto contrario degli slogan orwelliani che il regime globale ci propina.
Il killer di Stefano era una persona a cui erano state tolte le radici e che proprio per questo era divenuto violento o disperato, “senza identità”; come da preferenze globaliste, gli è stato mostrato il Giardino della Felicità a basso prezzo e senza sforzo, e naturalmente, non l’ha trovato. Non bastano adozioni, cittadinanze onorarie date a casaccio con tanto di manifestazioni pubbliche e palloncini colorati. Il killer di Stefano era infelice, e così ha ucciso chi, con la sua felicità, metteva alla luce o in maggior risalto la sua infelicità. Con un’arma più efficace di un coltello qualsiasi: un coltello rosa. L’arma delle menzogne colorate, delle assurdità autodistruttive, del melting pot caotico spacciato per “cultura del diverso” quando è un’omologazione mista, per la somma gioia delle classi dominanti che avranno un popolo indistinto e in lotta al suo interno. Un’arma, quel coltello rosa, che Said Mechaquat ha solo mosso verso la gola di Stefano, ma che gli è stata virtualmente data da un mondo e da una cultura che non punta a realizzare una società aperta e pacifica, ma piuttosto un mondo dove vige la legge della giungla.
Filippo Redarguiti