Al pari di molti altri gruppi che portano avanti una politica anticinese nell’emisfero occidentale, dai Radicali ai vari movimenti “buddisti” pro-Dalai Lama e “free Tibet”, anche la setta del Falun Gong cerca di far gioco sulla sinofobia presente in molti ambienti “culturali” ed élitari occidentali per trovare dei vantaggi che facciano il suo interesse.
Attraverso i suoi vari siti internet, presenti anche in Italia e pubblicati in italiano, non senza dimenticare poi anche “Epoch Times”, che esce pure in lingua italiana, il Falun Gong cerca di far passare nell’immaginario collettivo l’idea che la Cina popolare cerchi di sostituire gli Stati Uniti a livello globale come superpotenza di riferimento. Fermo restando che ciò sia ancora tutto da provare, di per sé non vi sarebbe comunque nulla d’illecito. Il punto, però, è che la visione della politica estera cinese, oggi, sembra piuttosto propendere verso un’idea di mondo sempre più “multilaterale” e “multipolare”, ovvero quanto di più lontano vi sia dalla concezione di mondo a guida “unipolare” che da sempre è invece molto cara agli Stati Uniti. Preso atto di questo, l’accusa rivolta da Epoch Times alla Cina di essere un “impero regionale” che mira a diventare “globale” perde già di per sé automaticamente di significato.
In ogni caso gli “analisti geopolitici” del Falun Gong non si danno per vinti e ribattono nel dire che la Cina popolare miri senza dubbio alcuno a diventare la nuova superpotenza di riferimento nel mondo. Solo che Xi Jinping ed il famigerato Partito Comunista Cinese avrebbero riscontrato maggiori difficoltà del previsto (quali?).
Secondo l’articolista che abbiamo citato, sarebbero poche le persone disposte a vivere in un mondo dove la potenza egemone è la Cina, tolta forse, come unica eccezione, la Russia. Significativa, a tal proposito, questa frase: “La Cina s’immagina un impero basato sull’economia, forse sulle conquiste militari, ma non sulla cooperazione e su relazioni reciprocamente vantaggiose”. Eppure sembra che l’andamento della cooperazione economica a livello internazionale, promossa dalla Cina dall’Asia al Sudamerica, fino all’Africa, vada proprio in direzione opposta, prova ne sia l’enorme consenso che Pechino, coi suoi progetti e i suoi finanziamenti, offerti con modalità ben più vantaggiose rispetto a quelle “capestre” ed “usuraie” della concorrenza occidentale, ottiene proprio in queste vaste aree del mondo. Indubbiamente contenuti così approssimativi e menzogneri, quali quelli di simili articoli, possono risultare credibili soltanto a menti impreparate ed incolte, gravemente condizionate dal pregiudizio e dalla superficialità culturale ed analitica. Chi ha una vera preparazione ed una paritetica capacità di comprensione e d’analisi sa bene quanto scadenti siano le ragioni di chi sostiene davvero che la Cina sia un nuovo impero coloniale.
Infatti, per confermare la propria ipocrisia, cosa dice l’analista in questione, riferendosi alla “governance” globale di oggi? “Diversamente, lo “impero americano” generalmente non è stato costruito sulla repressione o sulla conquista. Piuttosto, in linea di massima, è un sistema in cui i partner commerciali traggono benefici in termini economici e di sicurezza dal loro rapporto con gli Stati Uniti”. Sarebbe decisamente molto interessante chiedere a molti popoli sudamericani, agli iracheni, ai vietnamiti, ecc, cosa ne pensino di simili corbellerie! O, ancora, ai pochi “indiani d’America” ancora esistenti, visto che i più sono stati mandati “all’estinzione”.
L’articolo propagandista di cui vi abbiamo parlato sinora continua ovviamente con altri banali e penosi luoghi comuni, come quello che accosta la Cina di oggi all’Unione Sovietica di ieri, allo scopo di trasmettere l’idea di un “Impero del Male 2.0”. Insomma, erede dell’URSS, che le ha trasmesso il male mortale del “comunismo” (sic!, siamo ai livelli della propaganda di Goebbels!), adesso però la Cina sarebbe addirittura “fascista” (dai, che così ci compriamo anche il consenso degli “antifascisti sinistrati” italici di oggigiorno, e così ci facciamo pure un consenso bipartisan) e condizionerebbe ferocemente, col suo regime, la libera iniziativa economica, a cominciare dalle imprese private, fortemente soggette allo Stato. Ma allora nei modernissimi ed ammiratissimi paesi scandinavi, dove tutto è controllato dallo Stato, siamo spacciati!
Infatti, a quel punto, l’articolo “devia” prontamente dal fornire prove chiare di certi suoi contenuti deliranti, per prodursi in altri non comunque migliori: abbiamo, per esempio, la storia dei “due milioni di musulmani uiguri” detenuti nello Xinjiang (ma Human Rights Watch si smentisce da sola, e le ragioni sono ben spiegate in questo articolo), il che serve per arrivare al discorso veramente a cuore all’articolista: che in Cina sarebbero “perseguitate anche tutte le persone che praticano la disciplina spirituale chiamata Falun Gong e coloro che professano qualsiasi forma di cristianesimo o buddismo non approvata dal Partito”.
Ritornando a quel punto a parlare d’economia, l’articolista ci dice che “la reazione di Xi [Jinping] ai dazi statunitensi è stata quella di stringere il controllo sull’economia interna, il che ha trasformato molte imprese private sane in imprese statali corrotte e inefficienti, che sono destinate al fallimento”. Il punto è che i dazi non sono stati dichiarati certo cinque o dieci anni fa, e che ben difficilmente in tempi così brevi delle imprese sane, statalizzate, potrebbero già essere divenute insane e malfunzionanti. Inoltre, sarebbe corretto da parte dell’autore fornire degli esempi concreti di aziende del genere: come si chiamano, dove si trovano, quali erano i loro bilanci prima e dopo i dazi di Trump e l’intervento statalista cinese, ecc? Altrimenti l’unica impressione che se ne può derivare è che si tratti del solito discorso fasullo fatto solo per confermare i pregiudizi del tipico occidentale (in questo caso, italiano) reduce da trent’anni e più di costante polemica e delegittimazione politica verso l’economia statale, e di propaganda assoluta ed acritica a favore del privato a tutti i costi. Abbiamo visto anche col Ponte Morandi a Genova, crollato grazie ai Benetton che si sono mangiati le autostrade “gratis” grazie alla politica “privatizzatrice” e liberista che gliele ha regalate, com’è finita con questa storiella penosa del “privato è bello”. L’abbiamo visto con la Telecom, oggi TIM, mangiata completamente fino ad essere ridotta ad un guscio vuoto, o con l’industria italiana dell’alluminio, ai tempi dell’IRI tra le più grandi al mondo, mentre oggi è letteralmente scomparsa: grazie sempre alle solite cavallette… E allora, che questi articolisti innamorati del “privato a tutti i costi” ci facciano finalmente la cortesia di tirare fuori nomi, esempi e bilanci!
Sempre nell’articolo, si parla di “recessione economica” che starebbe conoscendo la Cina, mentre in altri punti si dice che tale recessione sarebbe incombente. Delle due l’una: o c’è o deve ancora arrivare. Anche in questo caso, però, vogliamo dati concreti, elementi che ne testimonino il rischio e la possibilità. Altrimenti, rimaniamo nel campo delle chiacchiere, buone solo ad imbonire i soliti ingenui pronti a credere che davvero gli asini volino.
Infine, si parla della “Nuova Via della Seta”, tema molto caro alla politica di Pechino, promossa da Xi Jinping. Per far capire che il progetto sia fallimentare, l’articolo arriva persino a smentire tutte le statistiche dimostrate dalle varie organizzazioni ONU (FAO, Unicef, OMS, ecc) oltre che da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale: “il Pcc non riuscirà a mantenere lo sviluppo economico di cui hanno goduto i circa 300 milioni di cinesi che appartengono alla classe media negli ultimi anni, come anche gli oltre 1 miliardo di cinesi che continuano a vivere in povertà. Infatti la crescita del Pil è già diminuita molto, rispetto alla crescita in doppia cifra degli scorsi anni. E, sebbene gli investimenti interni siano tra i più alti al mondo, il ritorno sugli investimenti è molto inferiore rispetto agli Stati Uniti e ad altri Paesi sviluppati”. Ora, dire tutto ciò è credibile quanto dire che l’acqua, messa nel serbatoio di un’auto a benzina, permetta un corretto funzionamento dell’auto stessa, migliore persino di quello che s’otterrebbe usando la benzina. Perché tutte le statistiche degli Istituti che abbiamo poc’anzi menzionato (e si badi bene che sono istituti occidentali, prima che internazionali, ovvero molto più influenzati da Washington che dalla Cina o da chissà chi altro ancora), asseriscono infatti, con metodi scientifici, che in Cina i cinesi che vivono nell’area della povertà non sono certamente la stragrande maggioranza della popolazione, ovvero ben un miliardo di persone, ed anche sul rapporto tra investimenti e ritorni (ma di che tipo, esattamente?) verrebbe da chiedersi a quali dati l’articolista abbia fatto affidamento. Può darsi che li abbia trovati su Topolino, ma anche in tal caso sarebbe stato corretto riportare le fonti.
La conclusione finale dell’articolista, che scrive dagli Stati Uniti, è che, insomma, la Cina di oggi sia come l’URSS degli Anni ’80 o come il Giappone degli Anni ’30: un paese che, nel tentativo di costruire un Impero, fallisce crollando miseramente prima. Il punto è che la Cina è stata un Impero già cinquemila anni fa, cosa che la rende peraltro la più antica (e resiliente) civiltà della storia ancora in vita, e continua tuttora ad esserlo. Inoltre, la Cina non mira a diventare la guida del mondo, ma un membro in una “comunità dai comuni destini”, come più volte spiegato e ribadito. Forse, se coloro che scrivono certi deliri, avessero l’onestà e la pazienza di dotarsi di un minimo di cultura, nonché di spirito critico, probabilmente in essi s’accenderebbe quella luce che li sottrarrebbe dalla manipolazione spersonalizzante di questa setta criminale e menzognera, che li controlla e li priva di qualunque capacità di eseguire un ragionamento che non sia fanatico e settario.