La persecuzione di Julian Assange chiarisce definitivamente il significato dell’espressione “giornalismo indipendente”, utilizzata spesso dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Se si scrive contro Russia, Cina, Iran e Venezuela, si è giornalisti indipendenti, dissidenti, perseguitati e meritevoli di premi, tutele, passerelle, cattedre universitarie e telecamere. Se, al contrario, si osano svelare i lati oscuri, gli intrighi e le mistificazioni di Washington e dei suoi satelliti, come ha fatto il co-fondatore di Wikileaks, si può tranquillamente marcire in galera senza diritti e senza pietà.
L’Alta Corte di Londra, come temevamo, ha ribaltato la sentenza di primo grado che negava l’estradizione negli USA di Julian Assange. I giudici britannici hanno accolto le rassicurazioni sul trattamento di cui dovrebbe “godere” in carcere Julian una volta estradato nell’iper-democratico Paese del democraticissimo Joe Biden, la patria di Guántanamo e della principale agenzia di sicurezza (la CIA) che pianificava di rapirlo ed ucciderlo.
La decisione presa dai due giudici dell’Alta Corte Burnett e Holroyde, è una vittoria per Washington che accusa di spionaggio il giornalista australiano sul cui capo pendono 17 imputazioni per un totale di 175 anni di prigionia per aver violato l’Espionage Act, una legge federale del 1917, mai utilizzata prima d’ora per vessare un giornalista, conculcando la libertà di stampa che non batte bandiera a stelle e strisce.
“Julian è stato detenuto in una forma o nell’altra per 11 anni, per quanto tempo può andare avanti? È il più importante editore degli ultimi 50 anni – accusato di aver pubblicato la verità”, ha dichiarato Stella Moris, avvocato e compagna di Assange.
Non si riesce a capire per effetto di quale pozione magica l’equilibrio psicofisico del creatore di Wikileaks, ritenuto in primo grado troppo fragile per sopportare il sistema di giustizia penale americano, sia migliorato a tal punto da rendere addirittura possibile la sua estradizione. Eppure, non troppo tempo fa, Nils Melzer, Special Rapporteur ONU sulla tortura, mise nero su bianco che Assange mostrava “tutti i segni tipici delle vittime della tortura psicologica”.
Non potendo fare il canonico disegnino, sintetizziamo in maniera brutale ciò che è accaduto ai “democratici” in cortocircuito mentale: a decidere di incriminare Assange, è stato Trump il cattivone. Poi è arrivata l’amministrazione di Biden il buono e ha deciso di portare avanti il processo, facendo appello alla Corte inglese per la sua estradizione e la detenzione negli States, il cui tragico epilogo è facilmente prevedibile.
Cos’è cambiato dunque tra il platinato tycoon ed il canuto sleepy Joe? Assolutamente nulla. A dimostrazione della perfetta continuità delle decisioni del “deep-state”, al di là di chi sia il presidente di turno.
Assange sta pagando per aver dato in pasto all’opinione pubblica mondiale una quantità enorme di informazioni su vicende che hanno cambiato la storia di intere nazioni, come le guerre in Afghanistan e Iraq. Ha rivelato intrecci di potere e condotte criminali di leader politici ed alti funzionari che si sono fatti scudo della segretezza non per garantire l’incolumità dei cittadini, ma per nascondere malefatte e garantire l’impunità ai potenti. L’accanimento su di lui è un tentativo di demolire una delle basi stesse del giornalismo: la sua capacità di condividere informazioni vitali che i governi preferirebbero occultare.
Chi per vigliaccheria, interesse o paura finge di non vedere o non capire, farebbe bene a tener presente una cosa. Se Julian Assange dovesse essere estradato negli Stati Uniti, nessun editore e nessun giornalista specializzato in questioni di sicurezza nazionale non “utili” a Washington potrà più considerarsi al sicuro.