L’ultimo summit del WEF (World Economic Forum) a Davos ha fornito due indicazioni chiave per la comprensione delle dinamiche geopolitiche internazionali. In primo luogo, il titolo del forum – “Creating a shared future in a fractured world” – è una chiara eredità del discorso di Xi Jinping dello scorso anno, nel quale il presidente cinese offrì una visione strategica estremamente saggia ed attraente (per un resoconto e la traduzione integrale si veda F.M. Parenti, Il socialismo prospero. Saggi sulla via cinese, Novaeuropa 2017). Proprio in quell’occasione il mondo sentì parlare della necessità di costruire una “comunità umana dal destino condiviso”, di diverse strade alla globalizzazione, del rispetto di questa molteplicità geo-storica, delle modalità per realizzare una pacificazione delle relazioni internazionali e di molto altro.
L’influenza del pensiero e delle parole cinesi sulla scena internazionale è cresciuto a dismisura negli ultimi anni, di pari passo con i successi economici e diplomatici. La Cina nella “nuova era”, come decretato dal XIX Congresso, è anche rappresentata da un più forte soft power (ovvero dal potere di idee e di indirizzo strategico alternativo allo status quo) esercitato nelle sedi più autorevoli del sistema mondiale. Si tenga bene a mente che questo nuovo potere culturale è sostenuto, legittimato e profondamente radicato nelle manifestazioni materiali della nuova era sotto Xi Jinping. La Belt and Road Initiative è già realtà, in corso di aggiornamento, ed è inclusiva, l’opposto del vecchio Marshall Plan, che era comunque di dimensioni assai inferiori. Alla luce di questi sviluppi, varie autorevoli voci cinese, come il ministro del commercio, hanno più volte invitato le élite statunitensi ed in parte quelle europee a farla finita con la mentalità da guerra fredda.
Il riconoscimento dell’esistenza di molteplici strade allo sviluppo e il rispetto necessario di questa diversità internazionale sono le premesse per promuovere una crescente interconnessione, secondo una modalità che la Cina individua nell’aumento di relazioni cooperative ed inclusive rispetto a quelle puramente competitive: queste ultime dovrebbero essere regolate a partire dalle prime. Un’altra idea di globalizzazione? Certamente, andando oltre un approccio manicheo tipico delle narrazioni dominanti.
Altro segnale emerso nei giorni di Davos è la conferma che gli Stati Uniti continuano a mostrarsi belligeranti, sul piede di guerra, legati, come detto, alla mentalità da guerra fredda. Nelle parole e nelle politiche dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti si ergono a nuovi promotori del protezionismo per fini geopolitici e strategici, rivelandosi incapaci di accettare un approccio cooperativo nei rapporti con la Cina. La vicenda delle nuove barriere tariffarie contro i produttori cinesi (che danneggeranno soprattutto i consumatori statunitensi), il boicottaggio contro Huawei e ZTE senza giustificazioni probatorie reali, le esternazioni di Trump contro l’errore di aver fatto entrare la Cina nel WTO – procedura con la quale la Cina ha fatto sacrifici enormi che hanno favorito, per esempio, gli investimenti delle aziende occidentali in Cina e viceversa, portando nuove opportunità non solo al livello domestico – e, dulcis in fundo, la classificazione della Cina, insieme a Iran, Russia e Nord Corea, al rango di stato rivale, nemico e minaccioso, che starebbe lavorando solo per spodestare gli Stati Uniti.
Insomma, se sono anni che la crescita economica cinese offre il maggior contributo alla crescita globale (nel 2017, 35% Cina e 17% Usa), non solo quantitativo ma anche qualitativo (solo per fare un esempio, le start-up cinesi hanno superato il valore di quelle statunitensi nel 2017), sarà il caso di capire come unire le forze per il benessere dell’intera umanità, invece di persistere sulla controproducente mentalità del vincere/perdere.