Finalmente, dopo settimane di dibattiti politici e discussioni nei talk show basati sul nulla, il fatidico Def giallo-verde approda in Parlamento per essere vagliato dalle Commissioni delle Camere.
Come abbiamo già detto la scorsa volta, valutando ciò che si appresta a fare il governo peri prossimi tre anni, non ci sono da fare né salti di gioia e né invocare il disastro più totale. Un deficit intorno al 2,4% è in linea con quanto fatto dai passati governi, specie nell’epoca Renzi. Tenendo poi conto che date le mutate condizioni di crescita, gli obiettivi fissati da Padoan e Gentiloni non sono stati raggiunti, gli stessi dati del Mef ci dicono che a condizioni invariate il deficit per il 2019 si attesterebbe al 1,2%. Se consideriamo uno 0,7% che serviranno per sterilizzare le clausole di salvaguardia, dobbiamo pensare che tutte le misure della manovra si baseranno su un effettivo 0,5% di deficit. Il resto delle risorse verrà da riqualificazione e tagli alla spesa pubblica.
Siamo in linea con quanto fatto dai governi precedenti. Cambia solo il metodo: se prima Padoan partiva da quanto permesso dalla Commissione Europea e poi andava a chiedere decimali di flessibilità (col pretesto dei migranti, del terremoto e così via) con una trattativa che durava alcune settimane, ora invece il governo unilateralmente fissa il deficit di cui pensa di aver bisogno per i prossimi tre anni. Deficit però basato su stime di crescita alte, che se non raggiunte potrebbero far saltare tutti i conti ed aumentare il disavanzo.
Ad esempio, il governo prevede che con le sue manovre il PIL nel triennio 2019-2021 si attesterà al 1,5, 1,6, 1,4 mentre i dati macroeconomici riferiscono che senza interventi il PIL si attesterà allo 0,9, 1,1, 1,1 nel 2021 a causa di prezzo del petrolio in risalita, commercio mondiale in rallentamento, euro rafforzato su dollaro, tassi di interesse più elevati.
Quella del governo è quindi una scommessa, basata sulla volontà di far crescere il PIL attraverso tre direzioni: sostegno al reddito attraverso il reddito di cittadinanza e superamento della legge Fornero, abbattimento delle tasse attraverso flat tax e pace fiscale, sbloccando investimenti pubblici che erano già in essere aggiungendovi 15 miliardi in tre anni.
Questa è la novità rispetto agli anni precedenti: si parte dalla crescita, dal voler cercare di far finalmente partire la crescita, cosa che prima era indotta da fattori esterni favorevoli.
Questo non potrà forse piacere alla Commissione Europea che riterrà troppo sovrastimate le aspettative di crescita determinate dal Ministro Tria, cosa che potrebbe far schizzare poi il deficit reale sopra il 3% già nel 2019.
Inoltre, le discussioni e i malumori dei giorni scorsi prima di Juncker, poi di Moscovici e Dombrovskis erano più che altro dovute alla scelta del governo di congelare il deficit nel prossimo triennio al 2,4%. Questo avrebbe voluto dire cestinare completamente il Fiscal Compact, che prevede il raggiungimento del pareggio di bilancio o almeno l’obiettivo progressivo di far tendere il disavanzo pubblico allo zero.
Ecco allora spiegato anche l’intervento del Presidente Mattarella, il quale ha prontamente ricordato che l’equilibrio di bilancio (il Fiscal Compact) è sancito nella Costituzione italiana, almeno dall’epoca Monti, e che va rispettato.
Lo spread ha fatto il resto. Lo spread Btp-Bund, libero ormai dalle catene in cui era relegato grazie al Quantitative Easing, non avendo più una garanzia esplicita da parte della Banca Centrale, è ora sensibile a qualsiasi dichiarazione che possa provenire sia dall’Italia, sia dall’Europa. Le parole dure di Juncker (“Se non siamo rigidi con l’Italia, l’euro è a rischio”) seguite da quelle dei due commissari, hanno alimentato un clima di scontro tra Italia e UE, vanificando i toni distensivi di Luigi di Maio, che a loro volta volevano frenare i “me ne frego” di Salvini e le dichiarazioni forse troppo libere di Claudio Borghi sul suo amore mai sbocciato verso la moneta unica europea.
Capite però che se l’Euro, che partiva per essere una moneta forte che ci doveva proteggere dalla speculazione finanziaria e doveva farci competere con l’impero cinese, ora è sensibile anche alle parole di un Ministro dell’Interno o di un Presidente della Commissione Bilancio della Camera qualsiasi, allora qualche problema questa moneta unica ce l’ha.
E’ come se negli Stati Uniti dovessero temere ogni parola fuori le righe del loro Presidente, come se dopo qualche pazzo discorso di Trump, lo spread tra California e Louisiana dovesse risentirne e cominciare a salire. Più che altro, avete mai sentito parlare di spread tra gli Stati americani? No di certo. Lì il debito pubblico è emesso e garantito dalla Federal Reserve e non si fanno troppi problemi a aumentare o diminuire i deficit di bilancio pur avendo uno dei debiti pubblici più grandi del mondo, accompagnato da una bilancia commerciale in negativo.
La strada per un’Europa veramente unita sarebbe quella di porre i debiti pubblici a garanzia della BCE, permettere agli Stati più deboli di fare politiche economiche espansive, aiutati da un sistema di trasferimenti fiscali. Invece il massimo di “solidarietà” di cui si parla in Europa è quella di prevedere procedure ordinate di default gestite dal MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) per gli Stati in difficoltà. E’ una cosa davvero assurda.
Tornando a noi, con lo spread risalito a 300 punti base,il governo ha deciso di cedere e di ridurre le stime del deficit per il 2020 e il 2021 rispettivamente al 2,1% e al 1,8%. Il Fiscal Compact rimane, almeno fino a primavera in cui ci saranno le elezioni europee. Poi si vedrà.
Ma più che sul disavanzo netto, sarebbe più giusto porre l’attenzione su altri due dati, ritenuti fondamentali dalla Commissione Europea: il deficit strutturale, al netto delle misure una tantum e della componente ciclica, e l’avanzo primario, ossia di quanto le entrate dello Stato superano le uscite, al netto degli interessi sul debito pubblico.
Il deficit strutturale con questo Def passa dallo 0,9 del 2018 al 1,7% per i prossimi tre anni. Ricordiamo che il Fiscal Compact lo vorrebbe allo 0,5% e che gli interventi del governo Gentiloni sulla “manovrina” e stabilità successiva sono serviti a riportare il deficit strutturale sotto la soglia dell’1% (nel 2017 si è attestato all’1,1%). C’è quindi un “peggioramento” (per noi forse non lo sarebbe) dello 0,8% rispetto al 2018, che potrebbe non venire gradito in sede Europea.
L’avanzo primario passerà dal 1,8% al 1,3% nel 2019, ma risalirà al 1,7% già nel 2020 e al 2,1% nel 2021, tornando ai livelli del 2012, in cui si era attestato al 2,2%. Questo dato è fondamentale, perché come abbiamo detto si tratta della differenza reale tra entrate e uscite. Significa che lo Stato italiano è in positivo e ricava più entrate da tasse rispetto a quanto spende. Aumentare l’avanzo primario significa inasprire l’austerità, ridurlo significa far respirare il Paese. Ed è già difficile chiamare una manovra finanziaria “espansiva” se si è in regime di avanzo primario.
Per questo non c’è da esultare per la manovra del governo giallo-verde, che sicuramente ci farà respirare almeno nel 2019 con la differenza rispetto ai governi precedenti che stavolta i benefici andranno maggiormente ai cittadini e alle famiglie italiane piuttosto che spendere per la gestione migranti o per ricapitalizzare banche, ma che già nel 2020 e poi nel 2021 ricomincerà a fare austerità, almeno sulla carta. Ciò vale considerando che si sta pensando di far aumentare gradualmente l’IVA nel 2020 e nel 2021 per avere più margini per riformare il sistema IRPEF.
L’unica nota positiva è data dal fatto che il governo è consapevole che il quadro macroeconomico mondiale sta iniziando a mutare e che potrebbe presto partire un nuovo periodo di crisi economica, che porrà un freno alle esportazioni. Pertanto l’obiettivo del governo è quello di ottenere un po’ di crescita sviluppando l’economia interna italiana, così da poter affrontare meglio lo shock esterno. Un mutamento in peggio delle condizioni economiche mondiali potrebbe rendere perfino nulle le previsioni per il biennio 2020-2021 e ciò può farci sperare in un cambiamento nella programmazione economica, con maggior deficit per stimolare l’economia.
Intanto non ci resta che attendere il lavoro parlamentare che porterà alla legge di stabilità alla fine di questo anno.
Marco Muscillo