In questo periodo tutta la regione del Corno d’Africa è attraversata da una particolare e delicata fase di transizione, che vede coinvolti vari attori non soltanto interni ma soprattutto esterni, anche molto lontani. Abbiamo visto compiersi, in questi ultimi mesi, la sinistra parabola del TPLF, quel Fronte Popolare di Liberazione del Tigray che dal 1991 al 2018 aveva dominato sull’intera Etiopia per poi ridursi, come forza d’opposizione, a scatenare una guerra di secessione nella regione settentrionale del Tigray, rapidamente conclusasi in una cocente sconfitta. Da quel momento il TPLF s’è ridotto a mero fenomeno di banditismo locale, e molti suoi uomini e leader sono morti scontrandosi con le forze governative etiopiche o sono stati da esse catturati, mentre altri godono di un facile e dorato esilio all’estero, con una protezione garantita dall’ingente patrimonio sottratto alla nazione negli anni del potere e dalla minaccia di parlare che costringe molti loro protettori (tuttora saldamente in sella nei governi europei, oppure ritornati al potere come nel caso dei democratici negli Stati Uniti) a continuare a comprarsi il loro silenzio e a fornirgli un rinnovato appoggio. Si pensi soltanto, giusto per fare l’esempio più celebre, a Tedros Adhanom Ghebreyesus, ex ministro della sanità nell’ultimo governo etiopico del TPLF, incriminato per aver coperto i crimini che allora vennero compiuti contro le ribellioni delle etnie Oromo ed Amhara, e che Obama elevò a direttore generale dell’OMS con la complicità degli alleati dell’UE: blandamente colpito dalle polemiche dei repubblicani nel periodo trumpiano, oggi con Biden gode di rinnovato sostegno e fiducia, e può tornare più che mai a dormire sonni tranquilli. In occasione della tensione che ha contrapposto il governo etiopico ai secessionisti del TPLF abbiamo visto quest’ultimi cercare di coinvolgere a tutti i costi l’Eritrea, anche col lancio di missili nel suo territorio, ed oggi grazie al denaro di cui dispongono e alle loro amicizie politiche cercano di portare avanti la tesi, in realtà del tutto mendace, di una presenza di truppe eritree nel Tigray, dedite nientemeno che alla pulizia etnica nei confronti della popolazione locale in collaborazione con le forze militari etiopiche.
Tuttavia, la nuova Etiopia del giovane premier riformatore Abiy Ahmed si ritrova, in questo momento, ad avere anche altre grosse gatte da pelare, la prima delle quali è costituita senza dubbio dalla questione del Nilo. La Grande Diga del Rinascimento Etiopico, costruita anche con le tecnologie dell’italiana Salini-Impregilo, ha innescato crescenti tensioni col Sudan ed in particolare con l’Egitto, che temono che la quantità di acque del Nilo che a quel punto riceverebbero possa essere minore rispetto ad oggi. Questa almeno è la ragione ufficiale, quella che solitamente chiameremmo col nome di “casus belli”, giacché vi sono anche altre motivazioni occultate dietro simili preoccupazioni, di per sé almeno a prima vista anche presentabili o comunque difendibili. Già durante la costruzione della diga, s’erano registrati casi d’attacchi da parte di gruppi armati provenienti dal vicino territorio sudanese: difficile la loro identificazione, come sempre avviene per tutti i gruppi paramilitari, letteralmente “in borghese”. S’è pensato a quinte colonne sudanesi, o a formazioni manovrate dall’Egitto (le due cose, in ogni caso, potrebbero pure collimare), che in questo particolare contesto mira ad aumentare le diffidenze e le tensioni fra Sudan ed Etiopia per portarsi il primo dalla propria parte e mettere la seconda all’angolo nella complicata questione della spartizione delle acque del Nilo. In questo contesto, da tempi non sospetti, l’Eritrea ha sempre sostenuto l’importanza che tutti i paesi attraversati dal corso del Nilo (l’Etiopia, i due Sudan e l’Egitto) trovino un punto di vista condiviso per gestire collettivamente tale fondamentale questione riguardante le loro popolazioni, in maniera che ogni potenziale conflitto possa sempre essere prevenuto e risolto con strumenti pacifici e politici.
Tale tesi trova oggi ancor più importanza alla luce della notizia delle nuove esercitazioni militari congiunte egiziane e sudanesi ai confini con l’Etiopia, proprio nelle vicinanze della Grande Diga: l’obiettivo del Cairo di porre Khartoum sotto la propria tutela, dunque, sembrerebbe ormai essere divenuto realtà. Ciò, però, è nell’interesse soprattutto d’alcuni attori esterni, che da sempre aspirano al controllo sul Corno d’Africa ovvero a riottenerlo con pienezza dopo che negli ultimi anni, con la caduta del TPLF in Etiopia, esso s’era ampiamente assottigliato. Israele, per esempio, ha da sempre una sua strategia nei confronti di tutta l’area del Nilo: l’aveva ai tempi in cui in Etiopia regnava il Negus Hailé Selassié, filobritannico e filoamericano, la cui guardia militare scelta, la famosa Brigata Flamme, era stata formata proprio dagli uomini di Tel Aviv (la Guerra dello Yom Kippur, con la conseguente reazione araba che portò al rialzo dei prezzi del petrolio, fu poi l’inizio della fine per il regime negussita, che cercò di salvarsi in corner rompendo le relazioni con Israele, col solo risultato però di perdere anche quel vitale appoggio; da cui anche la sua rapida e repentita caduta) e tornò a manifestarla anche quando vi governava il DERG, filosovietico e guidato da Menghistu Haile Mariam, che trovandosi in difficoltà nella guerra contro i combattenti del Fronte Popolare di Liberazione Eritreo (FPLE) non esitò ad invocare l’aiuto di Tel Aviv (con la conseguenza, però, di giocarsi il favore fino ad allora ricevuto dalla Libia di Gheddafi e da altri paesi, non soltanto arabi, del Fronte dei Non Allineati). Per Israele, se l’Egitto concentra le sue attenzioni nell’ambito del Corno d’Africa, scaricandovi le proprie forze e risorse, la pressione in Medio Oriente non può che attenuarsi a suo vantaggio, con immediati ed ovvi benefici. Tale strategia, del resto, è condivisa e gradita anche dagli alleati di Israele come Stati Uniti ed Inghilterra, che fino ad oggi hanno visto nell’Egitto di al-Sisi una sorta di “mina vagante” a cui cercare una nuova occupazione per scongiurarne una potenziale pericolosità che altrimenti potrebbe manifestarsi altrove. Al momento attuale, l’Egitto sta già procedendo in questa direzione, fornendo per esempio aiuti di vario genere al Sudan, con lo scopo d’ingraziarsi le autorità e la popolazione locali.
In questo vero e proprio ginepraio, l’Eritrea ha riaffermato con la sua politica di paese multivettoriale il proprio ruolo strategico agli occhi di tutti i paesi confinanti, Etiopia in primis. L’Eritrea ha intrecciato riporti diplomatici con l’Egitto, potendo oggi disporre di una linea di dialogo con quel paese che ad altri risulta al momento meno praticabile. Al contempo, sta portando avanti un’importante trattativa anche con l’Arabia Saudita, i cui capitali hanno un peso ingente tanto nello sviluppo egiziano quanto in quello sudanese, oltre a quello della Somalia che da breve tempo ha ritrovato la via per ricostruirsi lentamente come Stato unitario. Ciò è del resto inevitabile anche per questioni strettamente geografiche, ancor prima che geopolitiche: tanto l’Eritrea quanto l’Arabia Saudita condividono importanti quote di coste sul Mar Rosso. L’Eritrea ha davanti a sé il Mar Rosso, uno dei mari più importanti e solcati al mondo (un vero e proprio corridoio che congiunge l’Oriente con l’Occidente, l’Asia con l’Europa), e dietro di sé il vasto retroterra etiopico e del Corno d’Africa: impossibile, già con una simile geografia, non essere predisposti al dialogo pacifico con tutti coloro che si ha intorno. Quanto all’Arabia Saudita, essa condivide con l’Eritrea così come con l’Etiopia la forte preoccupazione per l’operato del Qatar, che con Obama era stato promosso a partner di primo livello come poi tristemente dimostrato dall’influenza politica ed economica che ebbe con le Primavere Arabe e la destabilizzazione in particolare di paesi come la Libia e la Siria. Con Trump il Qatar era stato nuovamente ricacciato all’angolo, ma ora l’arrivo di Biden ha subito portato alla sua riabilitazione, e già se ne vedono gli effetti a cominciare proprio dalla regione del Tigray, dove è proprio l’emittente qatariota Al Jazeera a diffondere oggi la maggior parte delle “fake news” a favore del TPLF e della destabilizzazione dell’Etiopia (anche nell’interesse del nascente asse egizio-sudanese), proprio come in passato raccontava tutte quelle sulle Primavere Arabe poi regolarmente rilanciate anche da tutti gli altri media mondiali, occidentali in primo luogo.
Portare dunque avanti una politica di dialogo con tutti, tesa sempre a smascherare le menzogne e le imposture di certi media e di certe cancellerie (non soltanto occidentali) rappresenta quindi la principale formula su cui oggi come oggi i paesi e i popoli del Corno d’Africa possono e devono contare per non permettere a chi intende turbare la loro pace faticosamente guadagnata di compiere passi falsi col risultato poi di ritrovarsi dalla parte del torto. L’esperienza storica e politica della diplomazia eritrea, anche in questo senso, può fare la differenza.
Caro Filippo testimone della verità, il tuo analisi è sempre profondo e puntuale. La tua amicizia non è legata ad interessi particolari, ma con il solo pensiero alla verità è giustizia per tutta la nostra regione. Penso che alla fine tutti quelli che gridavano al lupo, si renderanno conto che il torto stava dalla parte di coloro che inseguivano le mire neo-colonialistiche nella nostra regione. E si pentiranno di averci consegnato all’influenza Cino-Russa e di rimanere senza nulla in mano. Allora saremo noi a gioire finalmente della ritrovata pace e collaborazione tra di noi! Viva la pace tra l’Eritrea e l’Ethiopia in particolare e tutta la regione del’Africa Orientale in generale.