Noi avevamo detto che rimborsi non ce ne sarebbero stati ed invece il governo stavolta ci ha smentiti, almeno in parte. Nel fine settimana scorso, il Consiglio dei Ministri ha presentato la sua proposta, confluita nel decreto banche, con la quale si regolamentano i rimborsi per i risparmiatori che hanno perso azioni e obbligazioni subordinate nel salvataggio delle quattro banche in crisi, Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e Cariferrara.
Verranno rimborsati subito, senza passare dagli arbitrati e per l’80% del valore complessivo dell’investimento fatto, coloro che rispettano le seguenti condizioni: un reddito lordo sotto i 35.000 euro o un patrimonio mobiliare sotto i 100.000 euro. Su un totale di 10mila obbligazionisti chiamati in causa dal decreto, questi rimborsi automatici riguarderanno circa la metà delle persone. Tuttavia, se queste persone hanno già ottenuto dei rendimenti positivi dai bond, il rimborso sarà inferiore all’80%. Tutti gli altri risparmiatori, invece, dovranno far ricorso all’arbitrato, il quale deciderà se sono meritevoli di rimborso o no. Attenzione, possono ricevere il rimborso forfettario, però, solo coloro che hanno sottoscritto obbligazioni entro la data del 12 giugno 2014. A rimaner fuori dal rimborso forfettario rimangono 158 persone che hanno comprato obbligazioni subordinate sul mercato secondario online, ma come ha fatto capire Renzi, difficilmente le loro istanze verranno accolte.
Dura la reazione delle associazioni dei consumatori, Adusbef e Federconsumatori, che definiscono “inaccettabili” le condizioni poste dal governo e che i rimborsi “sono elemosine che non sanano il grave vulnus agli espropriati per decreto, che saranno costretti ad adire azioni giudiziarie per tentare di sanare la gravissima ingiustizia patita, per precise responsabilità del Governo, e soprattutto di Consob e Bankitalia”. Va giù duro invece il Codacons, con Carlo de Rienzi, il quale invoca il giudizio della Corte Costituzionale:
“I risparmiatori si sentono presi in giro e umiliati dai criteri fissati dal Governo sui rimborsi. Per tale motivo daremo vita non solo a mobilitazioni di protesta sul territorio, ma ad una vera e propria battaglia legale contro il decreto sulla banche. Il nostro ufficio legale sta già lavorando per impugnare il provvedimento al Tar e portarlo in Corte Costituzionale, e invitiamo tutti gli obbligazionisti che intendano tutelare la propria posizione a prendere contatti con la nostra associazione per far cadere sul Governo una valanga di ricorsi”.
Per quanto ci riguarda, non possiamo certo essere soddisfatti di questa soluzione perché dimostra palesemente l’inconsistenza delle condizioni che vengono poste: troppo arbitrarie sembrano le condizioni trovate dal governo, tanto più che nessuno riceverà il 100% del rimborso, ma ci si dovrà accontentare al massimo dell’80% (anche perché, a quanto pare, il fondo interbancario di tutela dei depositi che dovrebbe sia provvedere ai rimborsi e sia garantire i correntisti sotto i 100mila euro in caso di bail-in, è ridotto all’osso). Il governo continua a trattare queste persone (ricordiamo chi sono: famiglie e pensionati) come dei cattivi speculatori che investono denaro alla ricerca di profitto.
Troppo difficile dire le cose come stanno e cioè che queste 130mila famiglie sono state truffate da un decreto del governo Renzi, che ha sacrificato i loro risparmi per salvare quattro istituti bancari, non potendo più intervenire con soldi pubblici, a causa dell’Unione Bancaria sottoscritta in Europa dal PD e dal Governo Letta. Anche le associazioni dei consumatori non dovrebbero solamente puntare il dito contro la mala gestione delle quattro banche salvate, ma dovrebbero al contrario puntare il dito direttamente contro il governo, che in barba all’articolo 47 della nostra Costituzione, ha sacrificato i risparmi di queste famiglie in nome delle regole europee. Per questo, non va rimborsato l’80% ma il 100% dei soldi che il governo ha espropriato e non vanno rimborsate solo 10mila famiglie, ma tutti i risparmiatori coinvolti.
Passiamo invece ad altro. Come ricorderete, nel precedente articolo, avevamo detto che uno dei compiti di Atlante, il nuovo fondo creato per gestire la crisi bancaria, era quello di intervenire negli aumenti di capitale di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Leggendo il blog Vincitori e Vinti, apprendiamo di più: Atlante è praticamente servito ad evitare il bail-in sulla Popolare di Vicenza. Infatti, il fondo Atlante è subentrato a Unicredit nell’impegno a sottoscrivere l’inoptato per l’aumento di capitale della Popolare di Vicenza. Unicredit si era impegnato a sottoscrivere completamente l’inoptato solo nel caso in cui le azioni della banca Popolare di Vicenza fossero quotate nel mercato telematico. Facendosi sempre più probabile l’ipotesi che questa quotazione (com’è davvero avvenuto poi) sarebbe saltata, di pari passo aumentava il pericolo che Unicredit non sottoscrivesse completamente l’inoptato dell’aumento di capitale e la banca rischiasse il bail-in. Il fondo Atlante, quindi, ha dovuto modificare il proprio regolamento in modo da poter sottoscrivere l’aumento di capitale anche in caso di mancata quotazione sul mercato delle azioni della Popolare di Vicenza. Come poi è avvenuto nei giorni scorsi, la quotazione in borsa della suddetta banca è saltata, ma il fondo Atlante è comunque potuto intervenire per sottoscrivere completamente l’aumento di capitale della banca da 1,5 miliardi di euro e quindi sarà l’azionista di maggioranza con il 99,33% delle quote. Il bail-in sulla Popolare di Vicenza è stato quindi scongiurato, tuttavia la mancata quotazione in borsa è una beffa per i piccoli azionisti della banca stessa, i quali, a proposito di truffe, negli anni passati sono stati costretti a comprare azioni in cambio di finanziamenti e ora, con la quotazione in borsa, speravano di poter recuperare (cosa comunque molto dubbia) i loro risparmi persi ( fino al 2015 le azione della Popolare di Vicenza valevano 62,5 euro, oggi valgono circa 10 centesimi).
Sempre rimanendo in tema di Atlante, l’altro giorno, 3 maggio 2016, Ignazio Angeloni, membro del comitato di vigilanza della Bce, è intervenuto in audizione al Senato, parlando di banche e di fondo Atlante, dicendo:
“Il fondo Atlante rappresenta un passo ulteriore nella giusta direzione. […] Ma con un’entità attuale relativamente ridotta il fondo potrà intervenire su un numero ridotto di banche.”
Ovviamente queste dichiarazioni hanno alimentato il clima di sfiducia della borsa, dove, nei giorni scorsi, i titoli bancari sono nuovamente crollati. Tuttavia, è talmente palese che le risorse di Atlante siano limitate e che, anche se con buone intenzioni, quello che può ora fare il fondo è intervenire, come abbiamo visto, nelle situazioni che nell’immediato richiedono più urgenza. Ma effettuati gli aumenti di capitale alle due banche a rischio e utilizzato il resto della disponibilità per i crediti deteriorati di MPS, Atlante ha sparato le sue cartucce. Sono quindi necessarie altre soluzioni.
Nel decreto banche da oggi in vigore, si legge che il Tesoro entra in possesso della Sga, la società pubblica che alla fine degli anni ‘90 ha rilevato i crediti in sofferenza del Banco di Napoli. A fonte di un corrispettivo di 600mila euro, pari al valore nominale delle azioni di Sga, il Tesoro entra in possesso del 100% di questa società. Secondo le previsioni del governo, Sga potrà “acquisire sul mercato crediti, partecipazioni e altre attività finanziarie” e permetterà al Tesoro “di mobilitare risorse altrimenti non utilizzabili”. Inizialmente la Sga doveva essere uno dei sottoscrittori del fondo Atlante insieme alla Cassa Depositi e Prestiti, ma poi non se ne fece nulla. Ora, invece, due sembrano essere le possibilità di utilizzo di Sga: o come nuovo sottoscrittore di Atlante alla prossima apertura del fondo o addirittura, potrebbe essere utilizzata come bad bank pubblica col compito di acquistare e gestire i crediti deteriorati del sistema bancario. Tuttavia, quest’ultima soluzione è molto improbabile perché sarebbe sicuramente catalogata in sede europea come “aiuto di Stato” e quindi bocciata. Molto più probabilmente, le risorse fornite da Sga serviranno per operazioni di salvataggio mirate (il Fatto Quotidiano suggerisce il salvataggio di banca Tercas).
Ma come abbiamo più e più volte detto, questi fondi e queste bad bank alla fine sono soltanto dei palliativi utili a tappare momentaneamente delle falle. L’unica soluzione possibile per risolvere la crisi bancaria è l’intervento pubblico, che però è vietato dall’Europa. Qual è la reale soluzione che l’Unione Europea offre in caso di una crisi sistematica del sistema bancario? L’unica soluzione è l’utilizzo del fondo ESM, il Meccanismo Europeo di Stabilità, l’unico che possiede le risorse sufficienti a coprire i 300 e passa miliardi di sofferenze bancarie in Italia. L’unico problema è che il finanziamento del fondo ESM viene concesso a determinate condizioni, quali: il commissariamento politico da parte della Troika e l’obbligo a fare le “riforme strutturali”, come accaduto in Grecia (tagli agli stipendi e alle pensioni, privatizzazioni di assets pubblici e del patrimonio dello Stato, riduzione del Welfare State).
Due giorni fa, 3 maggio, intervenendo ad un convegno presso la facoltà di Economia della Sapienza di Roma, il nostro Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha proposto la creazione di un “Fondo monetario europeo che faciliti in modo coordinato i Paesi che hanno bisogno di essere messi in riga in termini macroeconomici e fiscali”, utilizzando proprio i soldi del MES, soldi che “giacciono come in un frigorifero” e che quindi, secondo il Ministro, potrebbero essere utilizzati per obiettivi comuni a tutti i paesi UE. Peccato che, come abbiamo detto, e come Padoan sa bene, l’utilizzo di quelle risorse implica l’insorgere di un piccolo effetto collaterale, la Troika.
Marco Muscillo.