I prezzi di grano, mais e soia sono saliti alle stelle da quando è precipitata la situazione in Ucraina. Gli aumenti sono rispettivamente del 38,6%, del 17% e del 6%. E’ quanto emerge dall’analisi della Coldiretti sulla base delle quotazioni alla borsa merci di Chicago, punto di riferimento mondiale del commercio dei prodotti agricoli.

Il contratto future più attivo sul grano ha chiuso a 11,91-1/4 dollari per bushel (27,2 chili) ai massimi da marzo 2008, mentre il mais a 7,6 dollari per bushel al top da 10 anni  e la soia a 16,78 dollari per bushel. Ad incidere notevolmente è stata la chiusura dei porti sul Mar Nero. Sul mercato mondiale Russia e Ucraina insieme rappresentano il 29% dell’export di grano e il 19% di quello di mais.

“Una situazione che, sottolinea la Coldiretti, nei paesi più sviluppati sta alimentando l’inflazione ma a rischio c’è la stabilità politica di quelli più poveri con i prezzi del grano che si collocano sugli stessi livelli raggiunti negli anni delle drammatiche rivolte del pane che hanno coinvolto molti Paesi a partire dal nord Africa come Tunisia, Algeria ed Egitto che è il maggior importatore mondiale di grano e dipende soprattutto da Russia e Ucraina”.

L’Italia importa addirittura il 64% del proprio fabbisogno di grano per la produzione di pane e biscotti e il 53% del mais di cui ha bisogno per l’alimentazione del bestiame. L’Ucraina è il nostro secondo fornitore di mais con una quota di poco superiore al 20% ma garantisce anche il 5% dell’import nazionale di grano.

L’aumento di mais e soia sta mettendo in ginocchio gli allevatori italiani che devono affrontare aumenti vertiginosi dei costi per l’alimentazione del bestiame (+40%) e dell’energia (+70%) a fronte di compensi fermi su valori insostenibili.

“Il costo medio di produzione del latte, fra energia e spese fisse, sottolinea Coldiretti, ha raggiunto i 46 centesimi al litro secondo l’ultima indagine Ismea, un costo molto superiore rispetto al prezzo di 38 centesimi riconosciuto a una larga fascia di allevatori”.

Il disastro italiano è il frutto di politiche di settore miopi e di pratiche speculative. L’Italia è costretta ad importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che sono stati costretti a ridurre di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni durante i quali è scomparso un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati perché molte industrie hanno preferito continuare ad acquistare per anni in modo speculativo sul mercato mondiale anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale attraverso i contratti di filiera sostenuti dalla Coldiretti.

Quest’anno, poi, sono raddoppiati i costi delle semine per la produzione di grano per effetto di rincari di oltre il 50% per il gasolio necessario alle lavorazioni dei terreni, a cui si sono aggiunti i costi dei mezzi agricoli, dei fitosanitari e dei fertilizzanti, addirittura triplicati.

“Nonostante questo il grano duro italiano, sottolinea la Coldiretti, è pagato agli agricoltori nazionali meno di quello proveniente dall’estero da Paesi come il Canada dove è coltivato peraltro con l’uso del diserbante chimico glifosato in preraccolta, vietato in Italia”.

“Per fermare le speculazioni a livello internazionale e garantire la disponibilità del grano, continua la Coldiretti, occorre lavorare per accordi di filiera tra imprese agricole ed industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali. Ci sono le condizioni per incrementare la produzione in Italia dove secondo l’Istat si stimano 500.596 ettari seminati a grano tenero per il pane, con un incremento dello 0,5% mentre la superficie del grano duro risulta in leggera flessione dell’1,4% per un totale di 1.211.304 ettari anche se su questa prima analisi pesano i ritardi delle semine per le avverse condizioni climatiche che potrebbero portare a rivedere il dato”.