Dopo il recente e poco fruttuoso tentativo di Roma, stavolta è stata Berlino ad assumere l’iniziativa diplomatica, rilanciatale dal precedente vertice tenutosi a Mosca. E l’ha certamente fatto in grande stile, con una conferenza d’ampia portata ed aperta a quasi tutti i soggetti direttamente od indirettamente attivi sullo scenario libico. Tuttavia, potrebbe essere proprio quel “quasi” a costituire un grave pregiudizio, anche prima del medio e lungo termine, all’auspicata riuscita dei frutti politici e diplomatici di questa conferenza.
La storia recente c’insegna che, di tentativi di far bella figura immortalandosi davanti ai fotografi con Sarraj e Haftar che si scambiano “un segno di pace”, ne è letteralmente costellata la carriera di numerosi politici europei, alcuni dei quali ormai nemmeno più “in servizio”. In tal senso non andrebbero dimenticati gli incontri tenutisi a Parigi, all’Eliseo, che sembravano per sempre consegnare la Libia all’influenza francese, e che invece si sono risolti in un nulla di fatto per Macron; oppure la conferenza di Palermo, patrocinata dal primo governo Conte, i cui effetti sono rimasti ben presto lettera morta e di cui s’è ormai praticamente persa la memoria.
E’ proprio per questo motivo se, a Berlino, le tensioni dei passati fallimenti hanno pur sempre pesato, accentuando le ansie di chi comprensibilmente teme di rovinarsi la faccia in una questione internazionale che non può pienamente controllare da una parte (per esempio gli europei) e la sfiducia di chi invece sa che, anche stavolta, ben difficilmente alle parole potranno seguire fatti dotati della medesima qualità (primi fra tutti i due contendenti libici). Non a caso, malgrado l’obiettivo della conferenza fosse quello di giungere ad un “cessate il fuoco” che pure l’Alto Rappresentante UE Josep Borrell tenterà comunque di presentare, nei fatti s’è giocoforza dovuto ripiegare su una ben più blanda “tregua”, dato il rifiuto tanto di Sarraj quanto di Haftar d’apporvi le loro firme. L’UE, tramite il suo Alto Rappresentante, vorrebbe proprio che si tenesse sotto l’egida dell’ONU una missione volta a garantire la salvaguardia del “cessate il fuoco” e il monitoraggio dell’embargo sulle armi, ma se i due principali sfidanti (vi sono pur sempre, sul suolo libico, anche altri attori “minori” o comunque in grado d’agire in modo autonomo, talvolta più vicini ai governi di Tripoli o di Tobruk in base alle loro convenienze, ma in ogni caso intenzionati soprattutto a tutelare i propri interessi di parte o persino a favorire i loro eventuali referenti esteri) non la riconoscono e molti loro sostenitori o promotori internazionali fanno altrettanto, allora è il caso di non coltivare già da ora chissà quali “speranze”.
Per esempio, proprio stamani il presidente turco Erdogan ha dichiarato che “Visto che è coinvolta l’ONU, non è corretto che l’UE intervenga come coordinatore del processo” di pace in Libia. “Se il cessate il fuoco che abbiamo chiesto con Putin verrà rispettato, si aprirà anche un processo politico” in Libia, ha quindi aggiunto. “La presenza della Turchia in Libia ha aumentato le speranze di pace. I passi che abbiamo compiuto hanno portato un equilibrio al processo. Continueremo a supportare un processo politico sia sul terreno sia al tavolo delle trattative. La Turchia è la chiave per la pace”. Un’altra cosa che Erdogan non ha perdonato agli organizzatori della conferenza di Berlino è stata pure quella di non aver voluto invitare la Tunisia, paese che indubbiamente ha voce in capitolo nel delicato assetto della regione nordafricano e della prospiciente area mediterranea, e che è anche insieme alla Turchia un “cordiale alleato” del governo tripolitano di Sarraj.
Tuttavia l’UE non si dà per vinta ed il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, che indubbiamente ha a cuore la riuscita del ruolo tedesco nel tentativo di pacificazione in Libia, ha dichiarato che “L’Unione Europea e è al lavoro per integrare l’accordo sul cessate il fuoco” con una misura volta a tutelare il rispetto “dell’embargo sulle armi”; per questo “ad inizio febbraio si terrà a Berlino una nuova conferenza di aggiornamento” sulla situazione in Libia “a livello dei ministri degli Esteri”. “Il nostro obiettivo”, ha poi aggiunto Maas, arrivando al Consiglio degli Esteri UE, “è stato raggiunto ma era solo il punto di partenza. Ora il grande problema è un armistizio completo e un processo politico che apra la strada a una pace duratura”. Anche la cancelliera Merkel, non a caso, ha rimarcato: “Tutti gli Stati sono d’accordo che abbiamo bisogno di una soluzione politica e che non ci sia alcuna chance per una soluzione militare. (…) Abbiamo messo a punto un piano molto ampio, tutti hanno collaborato in modo molto costruttivo, tutti sono d’accordo sul fatto che vogliamo rispettare l’embargo delle armi con maggiori controlli rispetto al passato”. Infine, quasi a voler prendere le distanze dagli esiti infruttuosi dei suoi colleghi italiani e francesi, ma al tempo stesso mettendo le mani avanti, ha così concluso: a Berlino “non abbiamo risolto tutti i problemi” ma “abbiamo creato lo spirito, la base per poter procedere sul percorso ONU designato da Ghassem Salamé (inviato ONU per la Libia, che ha ricambiato la cancelliera definendo “meraviglioso” questo giorno)”.
Anche per il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, quella degli accordi è comprensibilmente l’unica via: “Tutti si sono impegnati a ritirarsi dalle interferenze negli interessi libici. E’ un principio che deve essere rispettato”. Dopodiché ha anche lui espresso “profonda gratitudine per Merkel e l’iniziativa di questa conferenza, il suo impegno contribuirà alla stabilità della Libia”, ribadendo che “non c’è soluzione militare, lo hanno detto tutti i partecipanti. Tutti vogliamo negoziati sotto l’egida dell’ONU che portino ad una soluzione pacifica della crisi”.
Ma, come già dicevamo, a tutte queste belle parole ben di rado seguono fatti d’analoga bellezza. La nuova missione Sophia, tanto caldeggiata dall’UE e dal suo Alto Rappresentante Borrell rischia d’arenarsi ben prima d’approdare sulle spiagge libiche, o comunque di non sortire effetti che vadano al di là del mero risalto mediatico. Il non aver voluto o potuto contemplare, nel quadro della conferenza di Berlino, tutti gli attori presenti in Libia, pone già le premesse per poter dire che come al solito si siano voluti “fare i conti senza l’oste”; e se è anche vero che la loro eventuale presenza non avrebbe comunque fornito garanzie sul successivo mantenimento della parola data, è altrettanto vero che ciò versa ulteriore benzina sul fuoco delle già tante incomprensioni e rivalità che animano la lotta tra tribù e bande che connota lo scenario libico.
Gli accordi, si sa, si prendono con chi li sa mantenere, o perché può o perché vuol farlo, e già Sarraj e Haftar hanno grossi problemi in tal senso, legati ai tanti che scommettono sui loro cavalli e che addirittura gli passano il foraggio o gli rigovernano le scuderie: figuriamoci, dunque, anche tutti gli altri. Vada come vada, la conferenza di Berlino potrebbe pur porre le premesse perché in Libia cominci davvero a tirare un’aria leggermente migliore, ma il rischio che tutto resti come prima e che non si vada oltre a qualche momentanea vanagloria di rito è più che probabile.