Ieri sera l’ISIS è tornato a colpire, con un nuovo e sanguinoso attentato che ha avuto luogo a Dacca, in Bangladesh. Il bilancio è di venti morti, tutti civili, con sei terroristi uccisi dalle forze speciali dopo l’irruzione nel ristorante Holey Artisan Bakery in cui tenevano in ostaggio i presenti. Il numero delle vittime potrebbe tuttavia aumentare, giacché vi sono sette dispersi, di nazionalità giapponese, di cui ancora non si sa niente: più passa il tempo e minori sono le speranze che essi siano sempre in vita. Anche sugli italiani che si trovavano fra gli ostaggi al momento le autorità bengalesi non sono ancora in grado di fornire notizie affidabili. Intuibilmente il paese in questo momento è nel caos.
Negli ultimi tre giorni l’ISIS ha così compiuto ben tre attentati: uno ad Istanbul, uno a Mogadiscio ed uno a Dacca. La lista potrebbe purtroppo allungarsi ancora. Questa catena di attentati, tuttavia, ci conferma una cosa che già sapevamo: l’ISIS è un “franchising del terrore”, che offre gratuitamente il proprio logo ad una galassia d’organizzazioni terroristiche sparse per tutto il globo. Il vantaggio è reciproco: quest’ultime possono firmare e rivendicare i loro attentati con un nome altisonante e di grido, certamente molto più d’effetto in termini mediatici rispetto ad una sigla qualunque, mentre l’ISIS vedendosi attribuire azioni terroristiche in ogni parte del mondo appare all’opinione pubblica come un’entità presente in ogni parte del mondo e sempre più potente.
In realtà nessuno è partito da Raqqa o da Sirte per compiere un attentato a Dacca, o altrove, visto che in tutti questi contesti si tratta sempre di gruppi locali. Ma questi gruppi locali usano il nome dell’ISIS esattamente come un tempo avrebbero usato quello di al Qaeda, e così ecco che agli occhi dei più il Califfato diventa un’entità sempre più estesa e tentacolare, in grado di raggiungere e di stabilire proprie “ambasciate” in ogni angolo della Terra.
Questo meccanismo, lanciato fin dagli Anni Novanta da al Qaeda e successivamente perfezionato dall’ISIS, viene estesamente sviscerato ed analizzato anche nel mio libro “ISIS – Una minaccia all’Islam”, edito nel 2015 da Anteo Edizioni. Al Qaeda è stata l’apripista dell’ISIS, che fino ad un certo punto ne è stato anche parte per poi mettersi in proprio surclassandola e addirittura quasi fagocitandola. Da al Qaeda l’ISIS ha mutuato non soltanto la formula del “franchising”, ma anche le tecniche d’affiliazione e di reclutamento, basate su un uso sapiente dei media e dei canali di comunicazione, internet in primo luogo.
Il terreno in cui spesso l’ISIS va a pescare è quello dell’esclusione e dell’emarginazione sociale, che non è soltanto un fenomeno economico ma prima di tutto psicologico e culturale. La biografia di molti guerriglieri dell’ISIS, come di al Qaeda, è di persone che spesso e volentieri neppure avevano problemi economici. Addirittura molti di loro erano professionisti o persone con una vita lavorativa brillante, preceduta da un’altrettanto brillante carriera scolastica ed accademica. E neanche tutti erano immigrati di prima o di seconda generazione: abbondano, infatti, anche gli occidentali “purosangue”. Il punto è che tutti costoro, ad un certo punto, si sentono esclusi dal paese e dalla società in cui vivono. Finiscono per respingere ed odiare l’Occidente, di cui fino a quel momento sono stati felicemente parte, e si cercano così una Patria alternativa ed elettiva in un Califfato un tempo ideale ed oggi purtroppo reale.
Accanto a tutti costoro vi sono anche persone che invece scontano un’emarginazione sociale di tipo economica, frutto anche delle politiche che i paesi occidentali hanno avuto verso i loro stessi cittadini. Il crescente senso di precarietà economica e sociale, frutto di anni di liberismo, porta molti cittadini europei ed occidentali, ma anche di altre parti del mondo, a cercare una maggior sicurezza nella religione, soprattutto nella sua interpretazione più estremista e distorsiva, e ad idealizzare la “giustizia sociale” del Califfato e della sua società ideale. Sono, in ultima analisi, meccanismi psicologici e sociali che un tempo, negli Anni Settanta, in una società oltretutto più omogenea culturalmente ed etnicamente, facevano la fortuna delle ideologie e degli estremismi politici anziché del fondamentalismo che ancora non s’era affermato.
Questi meccanismi, che in Occidente conosciamo ormai bene, grossomodo si verificano con effetti analoghi anche nel resto del mondo, dall’Africa all’Asia. In questo caso hanno funzionato in Bangladesh, ma domani potrebbero funzionare in qualsiasi altro paese asiatico, o europeo. Nessuno, da questo punto di vista, può considerarsi immune.