
Per capire l’“evoluzione-degenerazione” genetica della sinistra europea ed italiana in generale, occorrerebbe andare indietro nel tempo di almeno tre decenni, ma come punto di svolta decisivo per definirne i tratti attuali è sufficiente il luglio del 2001, allorquando, in occasione del G8 di Genova, vennero violentemente represse le manifestazioni no-global: repressione che culminò con l’uccisione di Carlo Giuliani e con la “macelleria messicana” della scuola Diaz. Tale repressione, ingenuamente vista dalle diverse fazioni come uno scontro destra-sinistra, non mirò tanto a stroncare un movimento politico (che, come vedremo, è ancora vivo e vegeto all’ombra del potere globale stesso), quanto a stroncare sul nascere delle idee che stavano avanzando in seno ad esso.
In quel periodo, difatti, le istanze antiglobaliste stavano iniziando a prendere piede, sia pure in una primigenia forma post-comunista. Gli scontri di Seattle del 1999 avevano dato il via a una seria riflessione sull’idea di mondo successiva alla caduta del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica: dopo la sbornia “libertaria” immediatamente precedente e successiva a questi eventi, la sinistra radicale si ritrovò in mano il “pacco” rifilato dai poteri transnazionali, che l’avevano portata a rinnegare la sua stessa origine ideologica, ovvero il socialismo.
Il periodo immediatamente post-comunista è infatti ancora oggi ricordato come quello in cui milioni di cittadini dell’est passarono da un modesto benessere alla precarietà più totale, con gli asset statali (industrie, welfare, eccetera) ceduti nelle mani di grossi gruppi privati: il prezzo da pagare per la cosiddetta “libertà”. Si creò quindi una vasto movimento, riccamente articolato al suo interno, che presentava temi attualmente portati avanti, in forma diversa, solo dalle forze sovraniste, come la tutela delle economie locali e delle popolazioni autoctone.
Seppur viziate da una retorica migrazionista ancora presente, con un’evidente contraddizione fra il no alla mobilità delle merci è il sì alla mobilità umana, tali istanze embrionali avrebbero potuto costituire un ostacolo alla costruzione del grande progetto globale di “umanità liquida” attualmente in pieno atto. Alla repressione delle manifestazioni del luglio 2001, seguì di pari passo la “normalizzazione” e la conformazione ideologica del movimento no-global agli stessi ideali globalisti, secondo un percorso di cooptazione che parte dagli anni ’70 (se non ancora prima), quando numerose personalità ex-sessantottine trovarono impiego sicuro in giornali e media legati al blocco euroatlantico.
Piano piano, i “no global” mutarono pelle e diventarono “no border”. La differenza fra le due definizioni è sostanziale: dalla volontà (sia pur contraddittoria) di fermare il processo di globalizzazione, si passa al suo esatto opposto, ovvero l’eliminazione totale delle barriere umane e intellettuali, e di conseguenza anche economiche. Tale filosofia è oggi comune a tutte le correnti di sinistra, da quella apparentemente più radicale, a quella dichiaratamente “di mercato” (che rappresenta il grosso dell’attuale nucleo ideologico e di potere).
Oltre ad offrire alla (ex) sinistra disoccupata un nuovo ideale “unitario” da sostituire al vecchio sogno proletario, il potere ha provveduto a far rimuovere ogni traccia di marxismo dalla dialettica ideologica di sinistra. Il progetto di “uomo nuovo” liquido e globalizzato, flessibile e plasmabile, mai avrebbe potuto convivere difatti con le vecchie istanze comuniste di tutela del lavoro salariato.
A parziale compensazione di ciò, alla post-sinistra è stato concesso di operare su altri fronti minoritari, e con concreti aiuti qualora le battaglie potessero essere utili al progetto globale stesso. Tre esempi in primis: i diritti degli omosessuali, mutati in un ben più ampio progetto di “ideologia gender”; la difesa degli immigrati, ormai mutata in toto nella difesa ideologica e aprioristica dell’ immigrazione; l’ecologismo, mutato in selezione naturale e deprivazione ai danni delle fasce più deboli (consumi, trasporto privato).
Leve essenziali per creare la “disruption” ontologica e identitaria necessaria alla formazione dell’ “uomo liquido” globale, neutro, de-identificato, de-nazionalizzato e globalizzato. Si arriva così, nell’ultimo decennio, alla nuova generazione di giovani mondialisti, accompagnata dal definitivo cambio di pelle dei “cooptati” reduci dalle vecchie battaglie: i primi, formati a immagine e somiglianza delle esigenze globaliste; i secondi, completamente depurati (a suon di denari elargiti dalle grandi congreghe di stampo sorosiano) delle poche, residue scorie di marxismo ancora presenti.
E’ possibile tracciare dei tratti identificativi di questa “post-sinistra”. Anzitutto, il mondialista odierno, nonostante dichiari il contrario, è ferocemente anti-popolo e anti-democrazia. Frasi come “analfabeti funzionali” e “becero populismo” sono diventate ormai quasi un marchio di fabbrica tramite il quale riconoscere subito il mondialista-tipo. Più che con la democrazia, la sua idea di “governance” coincide con l’aristocrazia (nel senso letterale del termine: “governo dei migliori”) e con la sinarchia.
Tale disprezzo per il popolo è, in parte, una conseguenza post-traumatica del berlusconismo di massa, e, andando più indietro nel tempo, ha una sua prima incubazione nell’odio sessantottino per il “piccolo borghese” della classe medio-bassa, considerato ignorante, servile e mediocre. E’ così che nasce la retorica anti-massa, silentemente aristrocratica ed eugenetica, dei nuovi quadri mondialisti: giovani professionisti cosmopoliti le cui idee non si discostano per nulla dai loro datori di lavoro al vertice delle istituzioni globali.
L’unica parte di “popolo” fatta salva dalla loro dialettica sprezzante, è costituita, puntualmente, dagli immigrati, secondo una logica che aveva prima ragion d’essere nella lotta unita del proletariato, e che oggi, nel migliore dei casi, è retorica coloniale (e interessatamente neoliberista) del “buon selvaggio”, puro e innocente a priori. Nella pratica, l’attuale status dell’immigrato come vacca sacra del mondialismo ha ragion d’essere nella prosecuzione di un “uomo mobile” spostabile e salariabile a piacere del Mercato. Un uomo, per l’appunto, “globale”, la migrazione come valore.
Trasformare una tragedia in valore, è uno dei colpi da maestro degli spin doctor mondialisti. La mostruosa “mutazione genetica” della nuova sinistra mondialista, si esprime anche nella disinvoltura con cui i suoi adepti traggono profitto dalle logiche della globalizzazione. Un tempo si urlava allo scandalo quando dei palloni venivano cuciti da piccole mani asiatiche. Oggi, il mondialista considera ciò non solo come normale, ma addirittura come unico riscatto da una vita di miseria assoluta, incurante (e naturalmente sprezzante) del fatto che la delocalizzazione globale del lavoro in Paesi senza rispetto per sicurezza e salari, costituisca un fattore mortale per il lavoratore occidentale divenuto troppo costoso ed “esigente”. Ancora una volta salta fuori il disprezzo di fondo per le classi sottomesse.
In ultima istanza, il mondialista si nutre essenzialmente di miti del passato, ridotti a semplici “icone fashion”, quando in realtà si comporta in modo diametralmente opposto. La sua presunta “apertura” deriva più dai piaceri del cosmopolitismo che da un’empatia generale. Il viaggio low-cost è la sintesi del suo modo di pensare: mobilità assoluta, grazie a persone precarie e mobili. Acquisti online, sushi a domicilio e spostamenti in auto a basso prezzo, grazie a società con sede de-materializzata, lavoratori a chiamata e caporalato digitale: il mondialista è parte del mercato, sfrutta il mercato, e, quel che è peggio, ne supporta acriticamente i valori. Salvo poi comprare qualche articolo equo-solidale per vezzo nostalgico, o usare qualche servizio di car sharing: la retorica neoliberal della “condivisione” si limita a questi contentini, e ha sostituito il pericoloso concetto di “equità sociale” nella terminologia della sinistra mondialista.
In definitiva, il “soggetto mondialista” post-sinistra è il prodotto di laboratorio delle elites globali, frutto di un processo di ibridazione lungo decadi. Non abbraccia più alcuna istanza di giustizia sociale che possa mettere in discussione la leadership globale, da quest’ultima trae benefici e vantaggi, nonché un bagaglio di valori (rilevati e scrupolosamente selezionati all’asta fallimentare del comunismo, fra quelli rivendibili e “non dannosi”) che ne soddisfa il narcisismo intellettuale. Forse, più del mondialismo, il problema maggiore sono i mondialisti. Si dovrà puntare in primis, nei prossimi anni, alla demolizione del loro apparato ideologico, affinchè si possano porre le basi per la ricostruzione di una società ormai sempre più divisa (come da piani globali) fra padroni e sottomessi.
Filippo Redarguiti