Una recente immagine della vertenza Askanews a Roma

C’è una particolare tradizione in base alla quale si ritiene, in Italia, che tutto ciò che sia diffuso dai media stranieri abbia sempre una maggior validità rispetto a quelli nazionali, “nostrani”. Tutto ciò deriva da una contemporanea sopravvalutazione del giornalismo anglosassone o anche soltanto francese e svalutazione del giornalismo italiano, all’insegna del principio secondo cui “l’erba del vicino è sempre la più verde”. Tutto ciò lo vediamo anche in altri ambiti: anche molti prodotti industriali stranieri vengono visti dai nostri consumatori, non di rado a torto, come migliori rispetto a quelli italiani. Si tratta, in sostanza, di un “nazionalismo frustrato”: percependo la loro Patria come non all’altezza di quella altrui, molti italiani finiscono banalmente per rinnegarla preferendo tifare per altre “Patrie d’adozione”.

Tutto questo, comunque, era per introdurre al tema di cui vogliamo parlare oggi: l’acritica fiducia e preferenza che molti italiani, in particolare coloro che si considerano più “acculturati” o “cosmopoliti”, accordano ai media stranieri rispetto a quelli del loro paese. In realtà la differenza non è particolarmente accentuata, e molti fatti di natura geopolitica ce lo potrebbero facilmente dimostrare: dalle Primavere Arabe alla crisi ucraina, dal conflitto siriano al recente golpe strisciante in Venezuela, tutto sta a dimostrare come i media occidentali, nel loro complesso, siano sempre analogamente appiattiti sulla medesima visione del mondo e dei rapporti internazionali, in nome di un comune ossequio a quello che oggigiorno è divenuto il “pensiero unico”.

Anche la visione di paesi giudicati come ostili all’ormai scalfito predominio dell’Occidente nel mondo, in primo luogo la Russia e la Cina, s’accorda immancabilmente a questa tendenza. Tali paesi, al pari di pochi altri, vengono visti come il “male assoluto”, oppure raccontati ai lettori occidentali come grandi potenze che non potranno comunque mai, e poi mai, andare oltre il ruolo di semplici gregari e “numeri due” degli USA e dell’UE. Poiché essi costituiscono, con le loro azioni e col loro potere, una minaccia alla preminenza occidentale, è dunque bene delegittimarli il più possibile agli occhi dei cittadini occidentali come “potenze maligne” o “negative”, pertanto anche da delegittimare e privare di credibilità non soltanto politica ma ancor più morale.

Nel caso della Cina, ancor più che della Russia, tale esempio diventa a maggior ragione evidente, e in questo senso una buona prova c’è data da una velina dell’Agence France-Presse, che un’importante agenzia italiana come Askanews ha prontamente rilanciato fra i lettori italiani. In tale vicenda, deve destare sconcerto o quantomeno curiosità il fatto che, del tutto acriticamente, un’agenzia stampa italiana abbia rilanciato una fonte capziosa proveniente dall’estero, in questo caso dalla Francia, senza dunque esprimere o dimostrare un particolare spirito critico. Del resto lo dicevamo poche righe fa: “l’erba del vicino è sempre la più verde”. Ma non ci meravigliamo: quando si tratta di dare addosso alla Cina, “tutto fa brodo”, tanto per citare un altro noto proverbio.

Secondo tale velina, Wang Quanzhang, il noto “avvocato cinese specializzato nella difesa dei diritti umani” sarebbe stato condannato “a quattro anni e mezzo di reclusione per sovversione”, in base ad una sentenza emanata dal Tribunale di Tianjin. Come conseguenza di tale condanna, Wang verrebbe quindi “privato dei suoi diritti politici per cinque anni”, ovvero, tradotto in base alla legge italiana, “interdetto dai pubblici uffici”. Sappiamo che, proprio in base alla nostra legge, qualunque pena che superi i quattro anni comporti il carcere e che, qualora la sanzione detentiva superi i cinque anni, comprenda anche l’interdizione dai pubblici uffici. Nel caso italiano, ed occidentale in generale, ciò ben di rado desta particolare scalpore, ma come tale esercizio del diritto viene spostato in Cina ecco che subito qualcuno leva gli scudi.

L’articolo diffuso dall’agenzia italiana, e precedentemente elaborato da AFP, non contribuisce del resto a chiarire questo punto, anche perché presenta Wang come una sorta di benefattore che “ha difeso attivisti politici, membri della setta Falun Gong e contadini espropriati della loro terra. Faceva parte di un gruppo di circa 200 difensori dei diritti umani che sono stati arrestati nel luglio 2015. È stato formalmente accusato di sovversione nel gennaio 2016, un crimine punito in Cina con una pena fino all’ergastolo, e infine processato a Tianjin il 26 dicembre a porte chiuse nel nome, secondo la corte, del segreto di Stato“.

Questo passaggio, in ogni caso, dopo un’attenta lettura dovrebbe far riflettere il lettore. Significa che, molto banalmente, il processo a Wang è andato decisamente bene: rischiava l’ergastolo, e invece ha avuto una pena che comporterà “solo” quattro anni e mezzo di detenzione e cinque anni d’interdizione dai pubblici uffici. Per dire, ad un certo Denis Verdini, in Italia, per colpe pur sempre ben lontane dalla sovversione dello Stato, è andata discretamente peggio. Il problema principale, nel caso di Wang, consiste nell’aver sostenuto, non solo come semplice avvocato difensore, la causa di una setta come il Falun Dafa, che in Cina è stata messa al bando per le note attività di destabilizzazione politica e sociale che più volte sono state elencate, anche in questo giornale, con vari articoli.

Del resto, a muoversi a favore del condannato Wang, sono entità come Amnesty International, che parla di “crudele messa in scena” e “falso processo”. Fateci caso: è la stessa Amnesty International che, oltre a far sue le parole mendaci di una pericolosa psico-setta menzognera e manipolatrice delle coscienze dei suoi adepti, che non di rado ha portato anche alla rovina fisica e psichica, fa sue anche altre battaglie contro la Cina, dal Tibet allo Xinjiang, per non parlare ovviamente di tutte le baggianate che già ha raccontato sulla Russia, la Cecenia, la Siria, numerosi paesi africani, ecc, dove non di rado ha preso le difese dei fondamentalisti e dei terroristi di matrice islamica, o altro ciarpame del genere. E’ bene ricordarcelo quando troviamo gli “attivisti” di quest’associazione chiederci i soldi per strada, così giusto per risponder loro: “Non vi bastano quelli che prendete da altri, ben più cospicui?”.

Ma questa critica deve valere anche per tutti quei media che, in Italia, ciecamente, prendono per buone tutte le idiozie che vengono dall’estero, solo perché le ha scritte un francese, un inglese o un americano. Del resto, nel caso dell’agenzia italiana che abbiamo poco fa menzionato, andrebbe pure ricordato come la sua situazione editoriale sia ben lontana dal potersi definire presentabile o rispettabile, men che meno accettabile per i suoi lavoratori e dipendenti. Apprendiamo infatti da più fonti che Askanews, che oggi naviga in cattive acque, praticamente a rischio chiusura, intende liberarsi di 27 suoi dipendenti semplicemente giudicati come “esuberi”, mentre la situazione è riassumbile in queste poche e drammatiche righe: “Oltre al danno la beffa. I giornalisti di Askanews, che non hanno ricevuto lo stipendio di dicembre per deliberata decisione dell’azienda, ora si sono visti corrispondere meno di un terzo della retribuzione di gennaio per di più decurtato delle due giornate di sciopero fatte a dicembre”. Lo segnala una nota del cdr di Askanews parlando di una scelta ulteriormente vessatoria che i giornalisti condannano“.

Non è difficile immaginare che, in una simile situazione, l’agenzia in questione si trovi a lavorare anche a ranghi ridotti, con poco personale a disposizione, costretto pertanto a rilanciare semplicemente agenzie altrui pur di riempire l’edizione giornaliera. Questo deve dunque farci riflettere su cosa significhi sottoporre oggi l’informazione alle mere necessità e convenienze dell’economia, dandosi così delle priorità che finiscono sempre col penalizzare la qualità del giornalismo e il rispetto verso il lettore e la sua buona fede. Il libero mercato nemico della libera (intesa come vera) informazione? Forse, in questa domanda neanche troppo retorica, qualcosa di vero c’è.