L’Europa geografica non coincide con l’Unione Europea, e viceversa: questo, grossomodo, è noto a tutti. Parte dei Balcani, che sono Europa meridionale, non fanno parte dell’Unione Europea (Albania, Kosovo, Serbia, Bosnia, oltre alla Macedonia che ha però avviato le prime trattative ed il Montenegro che, in attesa di poter accedere all’UE, ha comunque adottato unilateralmente l’Euro come sua valuta), come del resto non ne fanno parte la Svizzera e il vicino principato del Liechtenstein. A marzo, dall’UE, uscirà l’Inghilterra, forse addirittura con una “hard Brexit” che non manterrà, fra le due coste del Canale della Manica, neppure quel minimo di accordi bilaterali che invece tanto a Bruxelles quanto a Londra avevano a cuore di preservare. Ancora, se accettiamo l’idea che risalente fino al XVI Secolo di Europa come realtà geografica e culturale spaziante “dal Portogallo agli Urali”, dovremmo rincarare la dose sottolineando che, dell’UE, non facciano parte neppure Moldavia, Ucraina e Bielorussia, e men che meno la stessa Russia, vista anzi dai vertici di Bruxelles e dai più convinti europeisti come un vero e proprio spauracchio.
Questa premessa serve a farci capire solo una cosa: che, pur dovendo distinguere fra l’Europa geografica e l’Unione Europea (dentro cui, fino a non poco tempo fa, in tanti avrebbero gradito la presenza di paesi geograficamente facenti parte dell’Asia come la Turchia o Israele, per non parlare addirittura di Stati caucasici come la Georgia), certe dinamiche politiche ed economiche restano comunque in comune, complice proprio la contiguità territoriale e l’avere conseguentemente anche non pochi problemi in comune.
In questo momento, per esempio, si sta registrando una discreta crisi delle forze “progressiste” o “socialiste”, sebbene il loro colore sia sempre più sbiadito. Tutte queste forze politiche, facenti parte del PSE o desiderose un giorno di poter sedere nelle sue fila, hanno proprio nel loro “europeismo” di stretta osservanza la maggior fonte dei loro guai.
Il primo esempio è la Francia, dove i Gilet Gialli sono ormai a tre mesi di manifestazioni continuate contro il governo di “En Marche”, il partito di Macron che, spostandosi sempre più al centro ed adottando una fisionomia vieppiù liberale e liberista, ha “vampirizzato” il vecchio Partito Socialista francese trovando, al momento della sua elezione, anche il consenso di una parte del centro e della destra più moderate. Anche oggi a Parigi i manifestanti erano non meno di cinquemila, e quelli in azione in tutto il paese variavano fra i 40 e 50mila secondo le stime più prudenziali: ci sono stati intensi scontri con la polizia e si è registrata anche l’infiltrazione dei soliti “black block” finalizzati a compromettere e delegittimare la protesta per autorizzare la repressione da parte dello Stato. Per “celebrare” la 14esima manifestazione dei Gilet Gialli, il governo francese ha schierato non meno di 80mila agenti.
In Spagna il premier Pedro Sanchez, che solo pochi mesi fa aveva sostituito Mariano Rajoy, è caduto a causa della bocciatura della Finanziaria da parte delle opposizioni, che sono state in grado di fare fronte comune contro il suo del resto debole governo di minoranza. Gli indipendentisti catalani, alle prese con un severo processo nei loro confronti dovuto alle ben note vicende legate al tentativo di attuare la secessione della Catalogna durante la presidenza di Carles Puigdemont, non hanno avuto alla fine dei conti molti problemi nel “perdonare” i vecchi nemici del Partito Popolare, allora al governo nazionale, votando contro Sanchez. Il 28 aprile la Spagna tornerà così al voto, e si tratterà della terza tornata elettorale per le Politiche in quattro anni, a dimostrazione anche di una sostanziale instabilità politica di fondo del paese, a causa di una crisi economica i cui postumi sono ancora lontani dall’essere riassorbiti e rimarginati.
Di fronte alla caduta di Sanchez, in Italia la sinistra locale, ormai sempre più slavata e spersonalizzata, ha preferito glissare evitando di esprimersi in qualsiasi modo, positivo o negativo. Eppure, solo la scorsa estate, Pedro Sanchez veniva definito, al pari di Emmanuel Macron, come uno degli “anti-Salvini” per eccellenza, colui che i migranti li salvava e li difendeva, insieme all’idea di Europa. Poi, però, sono arrivate le smentite e si è subito cominciato a glissare. Il silenzio odierno, in definitiva, è semplicemente coerente col già precedente e vistoso imbarazzo legato agli ultimi mesi di problematiche che tanto la Francia quanto la Spagna hanno vissuto. D’altronde, le forze della ormai ex sinistra italiana sono decisamente in crisi e possono, in questo momento, anche trascurare certe dinamiche esterne per preoccuparsi semmai più attentamente di quelle interne. Le votazioni nei circoli del PD ci consegnano un partito spaccato fra renziani da una parte ed ex renziani o antirenziani dall’altra, con un candidato come Nicola Zingaretti che matematicamente dovrebbe ormai avere la vittoria in tasca, ma che allo stesso tempo si troverà molto probabilmente a gestire anche una segreteria molto contestata ed osteggiata dai perdenti. Ciò non toglie che in alcuni casi, per esempio parlando del Venezuela, il PD invece abbia avuto tempo ed energie per occuparsi di politica estera, pur esprimendo posizioni ben più retrograde e reazionarie del trio Conte-Salvini-Di Maio da esso tanto contestato.
E poi c’è l’Albania: qui siamo fuori dall’Unione Europea ma, come dicevamo prima, pur sempre dentro l’Europa geografica. I giornali di oggi ci consegnano la notizia di una Tirana quasi in “stato di guerra”, con l’opposizione di centrodestra guidata da Lulzim Basha che ha assalito il palazzo di governo, invocando “un governo transitorio che prepari elezioni anticipate che siano libere ed in rispetto degli standard internazionali”. Il Presidente della Repubblica, Ilir Meta, si è appellato alla popolazione chiedendo che si mantenga la calma: “Bisogna evitare gli scontri e la violenza. I cittadini devono manifestare liberamente e le istituzioni vanno rispettate”. Ma Lulzim Basha ha comunque sottolineato, al termine di una manifestazione durata quattro ore e che ha visto persino gli uomini della Guardia Repubblicana disporsi sui tetti del palazzo di governo, che “la rivolta popolare non si fermerà fino a quando non faremo cadere questo marcio sistema”. Dal 2013 il Paese delle Aquile è governato da Edi Rama, giovane leader del Partito Socialista guardato finora con interessata fiducia tanto da Washington quanto da Bruxelles.
Ma, nel suo caso esattamente come in tutti quelli che abbiamo esaminato prima, dall’Italia alla Spagna fino alla Francia, l’impressione generale è che in Europa la crisi di consensi e di credibilità riguardi proprio coloro che, anziché essere socialisti, il socialismo l’hanno invece abbandonato o liquidato per sostituirlo con un liberal-liberismo liquido, in salsa accesamente europeista. Del resto, una prova ci viene proprio dall’Inghilterra: un quasi anonimo Jeremy Corbyn ha sepolto il liberalismo-liberismo spacciati per laburismo da Tony Blair e, da quel momento, ha cominciato a riprendere voti, al punto che oggi, sondaggi alla mano, risulterebbe persino vincente in caso di elezioni Politiche.
Al contempo in tanti, a destra, non si rendono ancora conto che i vari Renzi, Macron, Sanchez, Rama, ecc, sono tutt’altro che dei fieri e puri socialisti intenzionati a preservare a tutti i costi quella vecchia identità, che peraltro spesso nemmeno prima avevano mai posseduto. Non intuendone la naturale liberale, liberista, mondialista, “eurofondamentalista”, ecc, addirittura non pochi di loro arrivano a chiamarli “comunisti”…
Il fondamentalismo “euro-liberal-social-progressista”, questa “New Left” clintoniana-obamiana in perfetto stile liberal newyorkese che dagli Anni ’90 molte forze della ex sinistra europea hanno acriticamente adottato, si scontra evidentemente oggi con l’insofferenza di un elettorato e di interi popoli stanchi e delusi, quando non addirittura scottati e danneggiati dalla sua applicazione. Stando così le cose la protesta era il minimo che a questo punto ci si potesse aspettare.
Le destre o comunque le varie forze politiche della “concorrenza” di questa ex sinistra ormai decotta, pertanto, ben farebbero in questo momento a darsi maggiori capacità di analisi e di spirito critico. Sono state capaci di intercettare il malcontento provocato dalla scadente applicazione di questo falso “progressismo”, traendone così i dovuti benefici elettorali? Bene, ma a questo punto occorrerà dare a tutto ciò un seguito, anche perché, in assenza di reale “concretezza” nel tempo, quei voti come sono arrivati se ne possono anche andare via: e, dopo, cosa arriverà sarà ancora tutto da vedere. Capire che il proprio nemico non è un socialismo degli Anni ’70, o il pensiero bolivariano di Maduro, dato che Macron o il PD non hanno certo nulla a che fare con queste lontane realtà, sarebbe già un primo passo. Sennò, fra qualche mese, si rischierà di dover scrivere un altro nuovo editoriale, ma stavolta sulla crisi delle forze “euro-populiste”.