Facciamo chiarezza sull’aggiornamento del Def concordato in Consiglio dei Ministri: una manovra finanziaria con deficit al 2,4% è una manovra normale. Non c’è né da fare salti di gioia e né da pensare alla catastrofe.
Il deficit di bilancio esprime semplicemente il fabbisogno annuale di risorse finanziarie che una qualsiasi economia avanzata necessità per produrre crescita. In periodi di necessità, con forte disoccupazione e rallentamento dell’economia, qualsiasi Stato avanzato attua politiche cosiddette “anti-cicliche”, cioè stimola l’economia attraverso la spesa pubblica, facendo investimenti, tagliando fortemente le tasse o semplicemente aumentano la spesa corrente per stimolare i consumi interni.
Nel periodo della grande crisi finanziaria del 2007-2008 abbiamo visto tutte le più grandi economie mondiali fare forti deficit di bilancio: negli Usa, Obama, da tutti osannato, per affrontare la crisi e per far partire il suo piano di sanità pubblica, ha fatto deficit fino al 12% (il nostro 3% moltiplicato per 4!); la Francia fino all’arrivo di Macron ha sistematicamente fatto deficit oltre il 3%, senza che la Commissione Europea o i “mercati” se ne lamentassero. Il Portogallo è rientrato nei parametri del Fiscal Compact solo nel 2017, il Regno Unito ha stimolato l’economia con forti deficit per non entrare nel vortice della crisi finanziaria, visto che l’economia britannica è basata principalmente sul settore della finanza.
L’Italia, al contrario, ha svolto sempre il suo compitino. L’unico anno che il nostro Paese ha sforato di poco il 3% è stato nel 2010 (ed è forse quella la causa dei nostri “conti in disordine”), per il resto c’è stata una progressiva riduzione del deficit, che è stata più forte durante l’epoca Monti, e successivamente più lieve durante i governi di centro-sinistra, dove ricordiamo Renzi e Padoan andare in Europa a chiedere costantemente più flessibilità. Di fatto, l’obiettivo del pareggio di bilancio sancito al Fiscal Compact, veniva annualmente rinviato per non essere mai più raggiunto. Solo nell’ultimo anno, il governo Gentiloni ha dovuto cedere e apportare correzioni ai conti pubblici con le famose “manovrine” e poi fare una Legge finanziaria snella per il 2018.
Lo stesso Renzi, che, è innegabile, negli anni del suo governo ci ha fatto un po’ respirare dopo le manovre lacrime e sangue di Monti e di Letta, si rendeva conto della necessità di trovare risorse per fare investimenti che producessero crescita. Nel 2017, durante l’epoca di Gentiloni (forse anche per smarcarsi dalle politiche di quel governo), propose alla Commissione Europea di poter fare deficit al 2,9% (avete capito bene!) per 5 anni consecutivi. Proposta che rimase lettera morta. Ora, secondo il gioco delle parti, il Partito Democratico deve dar contro al governo giallo-verde e per questo prevede le catastrofi con una manovra al 2,4% di deficit. Ma se Renzi fosse andato al governo e fosse riuscito a realizzare quanto da lui e dai suoi progettato, cosa sarebbe accaduto sui mercati finanziari?
La critica principale che viene fatta è quella che aumentare il deficit significa fare più debito pubblico e quindi far aumentare lo spread. Innanzitutto va detto che è inutile considerare il debito pubblico nel suo valore assoluto: qualsiasi economia avanzata ha un debito pubblico alto. Infatti, a fronte di un debito pubblico si deve considerare sempre un forte settore privato. Gli italiani sono grandi risparmiatori e sono per la maggior parte proprietari di casa: questa è l’altra faccia del debito pubblico. Se la virtuosità di un Paese fosse dettata dal basso debito pubblico, allora gli Stati africani sarebbero i più ricchi e avanzati del mondo.
Invece, l’indice che va tenuto in considerazione è il rapporto debito/Pil. Cioè il debito pubblico deve essere messo in correlazione con quanto il Paese produce, con la sua ricchezza, con la crescita. Attualmente il nostro rapporto debito/Pil ha superato il 130%; nel 2011 era al 100%. Ciò significa che durante i “buoni governi” il rapporto debito/Pil è cresciuto più del 30%. Perché è accaduto questo? Perché essendo il nostro indice una frazione, il risultato del rapporto non è determinato tanto dall’aumento del numeratore, quanto alla diminuzione del denominatore. È calato il Prodotto Interno Lordo dell’Italia, anche grazie a politiche economiche depressive, e ciò ha fatto schizzare alle stelle il rapporto debito/Pil.Una politica economica differente, punta invece ad aumentare la crescita per rendere più sostenibile i conti e far diminuire il risultato del rapporto.
Ma c’è il problema spread. Giusto!
Si dice che manovre di tipo espansivo facciano aumentare lo spread alle stelle e quindi aumentare gli interessi che si pagano sul debito pubblico. È innegabile che uno spread alto è un problema, perché questo drena risorse che invece di andare a politiche a favore dell’economia reale, vanno a pagare maggiori interessi sui titoli di stato. Tuttavia, non c’è nessuna correlazione tra aumento del deficit e salita dello spread. Quella del “+ deficit = + spread” è un’equazione sbagliata.
I mercati finanziari sono gestiti da operatori privati che agiscono seguendo il loro maggior interesse, cioè il profitto. Se una speculazione parte, significa che si è dato ai mercati finanziari la possibilità di farla partire e ciò non è dato dalla politica economica annunciata da un governo, quanto piuttosto a dei problemi strutturali di sistema. Finché esisterà una Banca Centrale che svolge il ruolo di “prestatrice di ultima istanza”, la BC opera sul mercato e tiene a bada la speculazione finanziaria. La BCE ha tenuto a bada lo spread attraverso il Quantitative Easing, che ha deciso arbitrariamente di ridurre e terminare nel 2019. È quindi un problema di costruzione europea: la BCE è l’unica Banca Centrale del mondo che non svolge la funzione di prestatrice di ultima istanza. Il QE è stata un’operazione non prevista dai trattati; è stata una forzatura di Mario Draghi.
Come si risolve questo problema? Cambiando i trattati e progredendo nella costruzione europea, cosa che tutti a parole vogliono, ma che in tutti questi anni non si è mai fatto. Manca una reale volontà politica. Quindi il progetto europeo è di fatto un progetto monco che non progredisce. A monte c’è l’altro grande problema dell’Eurozona, la quale è un’area valutaria non ottimale, che condivide una stessa valuta ma che ha rapporti di forza differenti tra gli Stati al suo interno. Un eccessivo ricorso alla spesa pubblica in Italia potrebbe produrre effetti negativi, cioè aumentare troppo le importazioni, affossando di più il mercato interno.
Comunque i mercati non dovrebbero reagire male a prospettive di crescita. Una politica economica che spinge sulla crescita e sull’aumento del PIL potrebbe, al contrario, tenere calmi i mercati. Forse il governo italiano punta proprio a questo e probabilmente cercherà di convincere gli operatori a non temere politiche economiche espansive. Inoltre è presumibile che il governo punterà a far comprare titoli di stato alle famiglie italiane, per rendere il debito pubblico più stabile. Tutto dipenderà comunque dalla natura di questa spesa in deficit. La spesa deve produrre risultati nell’economia reale e quindi aumentare i consumi, dare stimolo all’impresa privata, dare inizio a un circolo virtuoso di investimenti.Non è quindi un discorso di quantità, ma piuttosto di qualità del deficit, pertanto dovremo semplicemente attendere i risultati tra un anno.
Intanto, possiamo notare che dalle dichiarazioni post-Consiglio dei Ministri, il Presidente Conte ha annunciato anche un grande piano di investimenti pubblici. Si parla di 15 miliardi che verranno messi a disposizione nel triennio per questo piano di investimenti. A fare la differenza, non sarà tanto il reddito di cittadinanza o la flat tax, ma piuttosto questo altro programma di investimenti.
In conclusione, possiamo rilevare che il Fiscal Compact è ormai acqua passata e difficilmente la Commissione Europea potrà tenerlo come cavallo di battaglia. La Francia ha già annunciato che nel 2019 farà il 2,8% di deficit; anche la Spagna non perseguirà il pareggio di bilancio. L’Europa non ha la forza per far valere la sua linea di austerità, teme troppo i risultati elettorali e le Europee sono dietro l’angolo. Ormai resta solo il vincolo del 3% sancito a Maastricht, che reggerà fin quando gli Stati membri non decideranno di sforarlo arbitrariamente.
Ci si arriverà, basterà attendere la prossima crisi.
Marco Muscillo