I dati della ricerca internazionale rivelano un notevole incremento della diffusione della depressione, soprattutto tra i giovani. Alcuni studiosi, partendo dall’analisi dei dati disponibili, hanno formulato l’inquietante ipotesi che il rischio di incorrere in questo disturbo possa aumentare di generazione in generazione: la tendenza storica sembra confermare questo tipo di interpretazione. La cura della salute mentale delle fasce più giovani della popolazione è perciò decisivo se si vuole contrastare la pericolosa deriva.

L’interesse scientifico per la depressione in età evolutiva è quindi aumentato, anche se bisogna distinguere tra la depressione negli adolescenti, tenuta in considerazione già da tempo, e la depressione nei bambini che ha iniziato ad essere studiata solo negli ultimi decenni: prima era considerata un fenomeno grave, ma piuttosto raro.

Nel 1943 Spitz, considerato un pioniere della tecnica detta infant observation, che consiste nell’osservazione di bambini secondo una griglia interpretativa di matrice psicanalitica, affermò di riconoscere i segni della depressione in un gruppo di neonati istituzionalizzati e deprivati sia della madre sia di un suo adeguato sostituto: ciò suscitò clamore, in particolare per la tenerissima età dei soggetti, eppure si considerò trattarsi di situazioni molto tristi, ma residuali.

La depressione infantile più o meno fino agli anni ottanta è stata misconosciuta o nel migliore dei casi sottovalutata dalla comunità scientifica. Di contro negli anni successivi, nell’alveo della ricerca sul tema in questione, numerosi studi hanno evidenziato il pericolo che la stessa diagnosi continui a perpetrarsi in adolescenza e poi in età adultà, oppure costituisca un fattore di rischio per altre patologie psichiatriche.

Le diagnosi di depressione infantile sono in seguito aumentate considerevolmente, questo dato è stato interpretato da alcuni come un campanello d’allarme delle peggiori condizioni psicologiche dei bambini, da altri come l’ovvia conseguenza di una precedente sottovalutazione, da altri ancora come un abuso di un’etichetta diagnostica divenuta, per così dire, di moda: non è da escludere che tali spiegazioni siano tutte in parte valide.

Sembra di poter ipotizzare che, in passato, non tutti i professionisti abbiano sempre tenuto conto in misura adeguata del fatto che i criteri diagnostici per il disturbo depressivo sono in parte diversi per le diverse fasce d’età: in età evolutiva difatti le lamentele somatiche possono essere predominanti, i criteri temporali di durata delle diverse forme sindromiche possono essere ridotti in misura significativa, ma soprattutto il sintomo dell’umore depresso va sostituito con l’irritabilità.

Negli anni è quindi emersa sempre più la consapevolezza che anche in campo psicopatologico è valido il noto principio secondo il quale il primo fattore che dà maggiori probabilità di guarigione è la diagnosi precoce. Cancrini nel suo libro La cura delle infanzie infelici, uscito nel 2012, ha affermato che la migliore prevenzione possibile dei disturbi mentali che si otterrebbe diffondendo una nuova cultura della cura, dove l’attenzione all’altro come persona e la fiducia negli specialisti faciliti la segnalazione e/o la rilevazione tempestiva dei problemi da affrontare. In psicoterapia, ha aggiunto: “quelli che curiamo anche quando curiamo pazienti adulti sono, alla fine, i bambini feriti che ancora piangono dentro di loro”.

Viene così a cadere il mito, consolatorio ma falso, dell’infanzia felice e spensierata, da sfatare come l’altro mito, legato all’adolescenza come un’età “di crisi”: lo è certo per molti ragazzi, ma non per tutti.

Lo stesso concetto di adolescente come soggetto diverso sia dal bambino che dall’adulto è del resto un’acquisizione piuttosto recente, risalendo soltanto alla seconda metà del XIX secolo. In precedenza, nell’ambito di società meno complesse, il passaggio dal mondo infantile a quello adulto era diretto, avveniva in tempi piuttosto ristretti, spesso ricevendo sanzione attraverso appositi riti di passaggio che di solito comprendevano prove di coraggio e di resistenza al dolore che rimandavano simbolicamente alla fatica della crescita. Anche in passato, certo, le persone affrontavano le diverse età della vita con atteggiamenti differenti, ma i giovani erano considerati prima di tutto degli adulti.

Ora è sempre più difficile definire il momento nel quale un individuo diventa adulto, anche perché per il senso comune essere adulti significa aver raggiunto l’autonomia finanziaria dalla propria famiglia, ma tale compito oggi risulta assai arduo per molti giovani, a prescindere dalla loro volontà, a causa della difficile situazione economica.

Caratteristica degli adolescenti è di avere tratti infantili e tratti adulti e forse questa condizione è diventata generale.

Nel 1978 Locchi e de Benoist ne Il male americano spiegavano come “gli Usa non sono il solo tipo di sviluppo concepibile. È l’Europa che, tra tutte le vie di cui avrebbe potuto valersi, ha deciso di seguire l’America”. L’opera descrive tutta una serie di caratteristiche della società statunitense, molte delle quali possiamo dire, quarant’anni dopo l’uscita, abbiano purtroppo compenetrato anche la nostra.

La nostra società è americanizzata in particolare per il fatto di porsi come egualitaria, ma di creare in realtà una nuova gerarchia basata sul danaro e la sua ostentazione. L’idea che tutti siano uguali e liberi in partenza, magnifica l’esaltazione del ricco e del vincente, quanto la denigrazione del povero e del perdente: si pensi alla parola looser che ormai viene (troppo) spesso usata, non tradotta, anche da chi sta parlando in italiano.

In una simile atmosfera culturale accettare una sconfitta, una propria fragilità, perfino una banale frustrazione risulta sempre più arduo. Essere debole è la cosa più grave, invece essere cattivo, spregiudicato, spietato può essere un vantaggio competitivo.

La dicotomia tra ciò che è permesso e ciò che è vietato, origine del dolore morale e del senso di colpa, è stata sostituita da quella tra il possibile e l’impossibile, che porta l’individuo a confrontarsi con un limite da spostare sempre più avanti, pena  la sensazione di fallimento, di inadeguatezza, di vergogna.

In definitiva non si vive più il dramma della colpa, tipico della nevrosi, ma la tragedia dell’insufficienza, tipico della depressione. Non più il conflitto, ma il deficit, l’insufficienza: la depressione si fonda difatti sulle categorie dell’inibizione, del rallentamento psicomotorio, dell’astenia, cioè della perdita di iniziativa e di performatività.

Alla grande pressione al successo odierna certo non sfuggono neppure i bambini. Nel paragrafo intitolato Dall’ottimismo alla puerilità gli autori sottolineano poi un’altra caratteristica saliente della società americana: “un doppio fenomeno d’inversione delle età: mentre gli adulti appaiono dei bambinoni, i bambini sono dei piccoli adulti”.

Non ci sorprende che alcuni bambini divengano anche dei piccoli depressi.

Michele Orsini