Simeone, un perdente di successo

Ancora una volta Diego “Cholo” Simeone è inciampato sul più bello, come il leggendario Dorando Pietri, a pochi centimetri dalla gloria imperitura.

Una quindicina di anni fa il compianto Franco Rossi appiccicò a Carletto Ancelotti, appena reduce da due secondi posti consecutivi con la maglia della Juventus, la famosa etichetta di “perdente di successo”. La stessa scomoda definizione potrebbe essere applicata a Diego Simeone dopo la seconda Champions League sfuggita proprio sul più bello, ancora una volta contro il Real Madrid di Sergio Ramos, un bel tipino che il Cholo si sognerà nei peggiori incubi notturni per tutta la sua vita.

Diciamo subito che la nomea di perdente di successo sembra davvero ingenerosa per questo grande e carismatico tecnico, capace di cavar sangue dai muri e di far vedere i sorci verdi a squadroni che fanno le collezioni di figurine con i generosi finanziamenti degli sceicchi o dei Florentino Perez di turno (un presidente cui in confronto Moratti sembra un grande intenditore di calcio e contabilità!).

L’Atletico Madrid è tuttora uno dei club più indebitati d’Europa che, nonostante da un lustro abbia avuto una gestione tecnico/sportiva pressoché perfetta, deve continuare a far cassa cedendo i propri giocatori per poter tirare avanti. Citiamo come esempio plateale il paccone Jakson Martinez, acquistato per 35 milioni di Euro dal Porto in estate, e poi sbolognato per 42 milioni al Guangzhou Evergrande dopo che il colombiano ha dimostrato di non trovarsi a suo agio negli schemi offensivi del Cholo. Un fatto che dimostra in maniera inequivocabile come la gestione sportiva orchestrata dall’area tecnica dei materassai madrileni sia di prim’ordine ma che nulla toglie alla bravura e alle capacità di un tecnico che ha saputo valorizzare giocatori come, cito alla rinfusa, Courtois, Oblak, Godin, Juanfran, Filipe Luis, Koke, Diego Costa, Arda Turan, Griezmann e rivitalizzare giocatori che sembravano finiti come l’ex juventino Thiago, Gabi e Fernando Torres.

Fin qui quindi grande, grandissimo Cholo: le squadre di Simeone sono sempre sul pezzo, disposte sul campo con una zona appiccicosa quanto efficace, un 4-4-2 scolastico con continue marcature serrate nella zona. Simeone ha avuto il pregio di riproporre il vecchio credo calcistico rioplatense (più uruguagio che argentino in realtà) fatto di garra, difesa ad oltranza e ficcanti contropiedi. Roba della serie “voi sbattete pure il becco contro gli scogli che poi in contropiede vi faccio la festa!”. Qualcuno ha frettolosamente battezzato il gioco del “meticcio” come catenacciaro, un paragone improprio perché il Catenaccio era un preciso modulo di gioco (un libero, due marcatori, un terzino di spinta in difesa, un incontrista, una mezzala tuttofare, un tornante ed un trequartista a centrocampo, un centravanti e una seconda punta in attacco) con connotazioni tipicamente italiane, modellato sulle caratteristiche tecniche e fisiche dei giocatori italiani. Il calcio di Simeone si avvicina di più a quello praticato storicamente dall’Uruguay (e in parte dalla stessa Argentina) soprattutto per la carica agonistica con cui centrocampisti e difensori mordono le caviglie dei loro avversari prima di partire come frecce verso la porta avversaria.

C’è stato però un allenatore, argentino come Simeone, attivo in Spagna una quindicina di anni fa (nel periodo in cui Franco Rossi coniò il famoso termine “perdente di successo”!), che ha perso due finali di Champions League (di cui la seconda ai calci di rigore!), stiamo parlando di Hector Cuper, il gatto nero della panchina: un pover’uomo che continua ad essere deriso e sbeffeggiato per le finali perse con Maiorca e Valencia e lo scudetto del cinque maggio sfuggito sul filo di lana con l’Inter! Quel Valencia, come questo Atletico Madrid, era una squadra che schierava un mix di buoni giocatori (Angloma, Djukić, Kily Gonzalez, Claudio Lopez) e di scarti delle big (Cañizares, Angloma, il nostro Carboni) valorizzati da una strabordante tenuta fisica e da una sagacia conduzione tattica. In molti avranno pure colto delle analogie sul piano del gioco e dell’organizzazione tattica tra le due squadre, entrambe schierate con un 4-4-2 semplice ed essenziale, con un gioco orrido ma efficacissimo fatto di garra, botte a centrocampo e lanci lunghi dalla difesa.

Come tutti gli allenatori che amano spremere come limoni i giocatori a propria disposizione, sia Cuper che Simeone crollano sul più bello, quando si comincia a gustare il dolce sapore della vittoria. Siamo sicuri che se il povero Hector avesse vinto almeno una di quelle due Champions con quel Valencia operaio, oggi sarebbe ricordato come un vero guru della panchina alla stregua degli Happel, Clough, Rehhagel, Hitzfeld. Qualcuno pure ricorderà che, appena arrivato in Italia, Cuper fu presentato dai soliti pennivendoli alla Bargiggia come “l’hombre vertical”, il tecnico che non guardava in faccia a nessuno e che caricava i giocatori con pesanti pacche sul petto (un po’ come Simeone!), per poi essere brutalmente scaricato ed irriso come un perdente quaquaraquà dopo l’incredibile cinque maggio 2002.

Dopo quel fattaccio qualche tifoso dell’Inter (notoriamente il tifoso medio della Beneamata è il più stolto d’Italia) arrivò persino a salutare come una liberazione l’ingaggio di Zaccheroni dopo il “pane e salame” dell’era Cuper che, lo ricordiamo, riuscì per poco a far vincere uno scudetto all’Inter (ripeto, all’Inter!) senza poter disporre della coppia d’attaccanti, atomica sulla carta, Ronaldo-Vieri. Ecco, siccome come dicevano i latini, sic transita gloria mundi, ci si augura che con il povero Simeone, presentato dai soliti imbonitori del barnum mediatico come il Che Guevara del pallone, non capiti la stessa cosa e che non si metamorfizzi in Fausto Bertinotti o Nichi Vendola!