
Dietro il sorriso. Il lato nascosto del Dalai Lama è stato scritto con la voluta intenzione di osservare il “capo del Tibet” da una prospettiva inedita (o, quantomeno, inedita agli occhi occidentali). Maxime Vivas si è addentrato in una figura assai complessa, troppo per essere inquadrata in schemi banali e ridicoli come quelle di “grande esempio di umanità” o “freedom fighter perseguitato”: quest’opera è un attacco diretto alle semplificazioni sul Tibet, sopratutto le dicotomie (tipiche dei “free Tibet”, spesso poco consapevoli della realtà dei fatti) come “libertà religiosa”-“oppressione comunista”, “Tibet sovrano”-“Xizang occupato”, e così via. Non si tratta di un’opera per soli esperti di Tibet e Cina, ma di un’opera agibile a chiunque abbia minime conoscenze della cosiddetta “questione tibetana” ed interesse per la geopolitica asiatica.
Vivas segue qui un metodo rigorosamente scientifico: non si tratta affatto, come qualcuno potrebbe pensare, di un’“apologia” del governo di Pechino, e nemmeno di una montatura mirante ad irridere il buddismo o la cultura tibetana. Piuttosto, si tratta di una minuziosa analisi, ricca di rimandi storici e bibliografici, della storia del Tibet dell’ultimo secolo, parallelamente alla storia del cosiddetto “governo in esilio” di Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama. Per il fatto di inoltrarsi specificatamente nella personalità dell’“Oceano di saggezza”, nel suo modo di agire e nelle sue parole, l’opera di Vivas è un ottimo complemento alla lettura di Tibet, crocevia tra passato e futuro di Marco Costa, pregevole per la sua analisi storico-religiosa della regione.
Dopo l’introduzione critica di Filippo Bovo, che ci introduce sommariamente al problema tibetano inserito in un contesto geopolitico più ampio, Vivas ci guida attraverso il Tibet quale era sotto la teocrazia lamaista. Si tratta di un’icastica e concisa rappresentazione di quello che era il paese fino a mezzo secolo fa: un sistema bloccato ed arcaico, estraniato dallo sviluppo e dal progresso, oppresso da un regime che non aveva alcunché di democratico o di umano, ma che si basava sulla superstizione e su pratiche pseudo-religiose. Tutt’altro che un mistico Shangri-la in unione panica con la natura, le condizioni della regione sono ben più simili a quelle descritte da Marco Polo sette secoli prima, durante la sua visita in Tibet: «E ànno li più savi incantatori e astorlogi [astrologi, ndt] che siano in quello paese, ch’egli fanno tali cose per opere di diavoli che non si vuole contare in questo libro» (Marco Polo, Il Milione, cap. 115). Quell’isolamento (sopratutto culturale) che ha logorato quella regione non può essere meglio descritto che con le parole del Dalai Lama: «La gran parte delle persone nelle loro lontane marce in Tibet non sono mai state a Lhasa, o forse non hanno neanche mai incontrato nessuno che vi fosse stato. Di anno in anno essi hanno arato la terra ed allevato i loro yak ed altri animali, e nemmeno hanno visto o sentito cosa avveniva nel mondo oltre il loro stesso orizzonte» (Dalai Lama, My land and my people, New York, McGraw-Hill, 1962, p. 42).
Il cuore dell’opera, più che uno studio sulla storia del Tibet, è un’analisi sulla figura del Dalai Lama: non può essere affatto ridotto a ruolo di “saggio” o di “santone”, ma è in toto un homo politicus. Per decenni ha svolto una vera e propria attività politica, con scopi, istituzioni e cariche, fatta di diplomazia, attacchi mordi e fuggi, rivisitazioni storiche, ritirate strategiche e nuove aperture. Tutt’altro che un attore indipendente e sovrano, è sufficiente conoscere le sue posizioni in politica internazionale per capire chi siano i suoi sponsor e chi effettivamente finanzi il fantomatico “governo tibetano in esilio”: «La politica americana è pensata per promuovere la democrazia in Iraq e Afghanistan usando talvolta metodi controversi. Io dico tanto meglio, sono i benvenuti. Ma sarebbe ancora meglio se promuovessero la democrazia in Cina» (Traduzione dal resoconto del gruppo di amicizia franco-tibetano al Senato francese, 29 aprile 2005).
Tra le tante contraddizioni del Dalai Lama, emerse in una contraddittoria (quanto effimera) attività durata oltre 50 anni, balzano subito all’occhio tutti i punti non chiariti del suo programma politico: vuole l’indipendenza o l’autonomia? Che ordine sociale desidera per il “suo” Tibet? Che ruolo dovrà avere il Dalai Lama in un ipotetico Tibet “sovrano”?
A tutte queste domande, e a molte altre, Vivas prova a rispondere mettendo a confronto le tante (e troppe) versioni fornite dal Dalai Lama, con un occhio di approfondimento sui finanziamenti stranieri nelle casse del “governo in esilio” ed un altro sugli incidenti del 2008. Dietro il sorriso, come scritto in conclusione dallo stesso autore, è una dichiarazione di guerra al fanatismo, qualunque esso sia, alla religione sfruttata per scopi politici, al potere manipolatore dei media, alla sinofobia e alla discriminazione religiosa. Come l’autore ha efficacemente scritto in conclusione, parlando della sua opera, essa «si lamenta dei modi con cui il buddismo è stato piegato a scopi che noi saremmo meravigliati (e terribilmente rattristati) di veder sanciti in un immortale testo sacro».