
Il 31 agosto si è infine consumato il golpe preparato da mesi contro la presidente democraticamente eletta del Brasile Dilma Rousseff. Il Senato brasiliano ha approvato, con 61 voti a 20, il definitivo impeachment della presidente che in questo modo decade definitivamente dalla sua carica (assunta nel 2010 e rinnovata nel 2014), dopo l’iniziale sospensione di sei mesi.
In una seconda votazione la privazione dei diritti politici della Rousseff per otto anni – e conseguente ineleggibilità – è stata bocciata. Almeno il Partito dei Lavoratori di Lula e Rousseff è riuscito a salvare il salvabile chiedendo di tenere separate le due votazioni. Michel Temer, presidente ad interim fin dallo scorso maggio, si è così insediato ufficialmente nella carica che deterrà fino alla scadenza del mandato prevista nel 2018. La Rousseff ha reagito parlando ancora una volta, senza mezzi termini, di un colpo di Stato giudiziario e parlamentare per rimuovere un governo liberamente eletto da 54 milioni di brasiliani.
Le imputazioni
Le accuse all’ex presidente sono di aver falsificato negli ultimi anni i bilanci della Petrobras, la grande azienda statale del petrolio; il “caso Petrobras” avrebbe innescato un giro di affari e corruzione in cui, secondo gli accusatori, sarebbe coinvolto anche il predecessore della Rousseff, Lula da Silva, indagato e quindi nominato ministro, sempre secondo gli accusatori, nel tentativo di dargli l’immunità. Da qui sono nate le proteste nelle strade e il procedimento di destituzione della presidente.
Tuttavia il nuovo capo dello Stato Michel Temer, il grande tessitore della trama contro Rousseff, era proprio il vicepresidente del precedente governo: sfugge, quindi, come questo personaggio potesse essere all’oscuro di eventuali corruttele e intrighi in seno alla gestione della Petrobras. E infatti Temer, oltre a non essere amato dal popolo (fischiato alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Rio e convintosi a disertare quella di chiusura) potrebbe egli stesso, in linea teorica, essere indagato per le stesse accuse che vengono mosse a Dilma e Lula. Per il momento il nuovo presidente tenta di mantenere un profilo basso e annuncia di voler guidare un “governo di unità nazionale”, rispondendo forse alle critiche piovutegli addosso quando presentò il suo governo ad interim senza neanche una donna e composto da soli uomini bianchi.
Un paese spaccato in due
In realtà quello che una parte della società brasiliana e dei media cercano di presentare come la cacciata di un governo corrotto, rischia di spaccare ancora di più un Paese già abbondantemente spaccato tra i ceti più abbienti orientati a destra e gli strati popolari che hanno sempre sostenuto la coalizione di centrosinistra guidata dal Partito dei Lavoratori. Già si sono registrati scontri e opposte manifestazioni a favore o contro l’ex presidente.
Come se non bastasse il Brasile sta soffrendo una recessione economica legata soprattutto al crollo del prezzo del petrolio. Ma adesso la destra ultra-liberista, spalleggiata dalle oligarchie legate agli USA e da una magistratura ugualmente riconducibile al campo reazionario, cerca di addossare alla Rousseff la responsabilità di ogni problema. Si sono sovrapposti, evidentemente, la causa giudiziaria (che rimane comunque goffa e priva di prove concrete) e l’attacco politico portato contro il governo socialdemocratico.
Quest’ultimo è “colpevole” di aver ridotto incredibilmente le disuguaglianze e la povertà e di aver riaffermato, dopo la lunga notte neoliberista, l’importanza dei beni comuni, tra cui le risorse petrolifere gestite dalla Petrobras. Non a caso la compagnia petrolifera statale è nel mirino di chi, dentro e fuori il Paese, preme per privatizzarla e darla in pasto ai rapaci speculatori della finanza internazionale (un copione già tristemente seguito in Italia con lo smantellamento dell’IRI durante gli anni Novanta).
Perciò le accuse alla Rousseff restano politiche ed ideologiche ancor prima che giudiziarie: in questo senso parlare di golpe non è né fuori luogo né un particolare esercizio complottistico.
La strategia di Washington
La situazione va inoltre inquadrata alla luce più ampia offensiva portata avanti contro i governi sovranisti, socialdemocratici e progressisti che negli ultimi 15 anni hanno cambiato il volto dell’America Latina.
Le fasce più abbienti della società, sempre tentate dalle vie golpiste, non hanno mai smesso di lavorare affinché il continente tornasse a svolgere la funzione di “cortile di casa” degli Usa. Proprio George W. Bush aveva incassato la pesante onta di vedere l’avanzata di Chavez, Lula e Kirchner prima, di Morales, Correa, Ortega poi. Con il conseguente stop ai negoziati dell’ALCA, l’area di libero commercio che avrebbe legato vari Paesi sudamericani agli Stati Uniti.
Con Obama alla Casa Bianca non sono cessati i tentativi destabilizzatori che hanno avuto successo con la destituzione del presidente dell’Honduras Zelaya (2009) e del presidente del Paraguay Lugo (2012). Il Brasile di Lula e di Rousseff era finito da tempo nel mirino anche di Israele, con cui i rapporti diplomatici sono scesi ai minimi termini prima del “provvidenziale” avvento di Michel Temer, ex informatore dei servizi segreti americani, secondo Wikileaks, e considerato un affidabile alleato di Israele: il governatore della Banca Centrale nominato da Temer è proprio un israeliano. Per il Brasile si aprono quindi scenari molto incerti in cui il nuovo governo dovrà fronteggiare un’opposizione forte dei milioni di voti che neanche due anni fa incoronarono per la seconda volta Dilma Rousseff.
Dilma Rousseff come Bettino Craxi?
Come già avvenuto in Italia con l’operazione Mani Pulite, la scusa della “corruzione” potrà essere il motore per privatizzare le imprese statali e ridurre lo Stato sociale, il che suona estremamente buffo, visto il grado di corruzione che secondo molti osservatori alberga anche e soprattutto proprio tra gli artefici di questo golpe consumatosi tra aule giudiziarie e un parlamento brasiliano frammentato tra miriadi di partiti e partitini con interessi diversi.
Possibile delineare un parallelo anche con l’Argentina, dove il presidente democraticamente eletto Mauricio Macri sta attuando una spietata controriforma liberista, è presumibile che anche in Brasile la nuova dirigenza si muoverà in questa direzione, con ripercussioni su tutto il continente.
Intanto i Paesi dell’asse neobolivariano, Venezuela, Bolivia ed Ecuador hanno già ritirato i loro ambasciatori da Brasilia, e dure critiche sono arrivate da Cuba, Nicaragua e dall’ex presidente uruguayano Mujica.
Giulio Zotta