Euro, BCE, Mario Draghi

Macron all’Eliseo: possibili scenari in Francia e in Europa

Dopo la vittoria di Emmanuel Macron in Francia, i falchi dell’europeismo tirano un sospiro di sollievo, credendo di aver arginato il pericolo populista.

Le elezioni legislative di giugno è presumibile che non riserveranno grosse sorprese: è vero che il partito di Macron, En Marche!, ha meno di un anno di vita e non ha una struttura forte come quella dei partiti classici, ma la duttilità di Macron può permettergli di trovare alleati sia a destra come a sinistra. Per cui sarà facile per lui aprire ai repubblicani, magari all’ala di Juppé e trovare un primo ministro che possa far convergere le preferenze di repubblicani e socialisti ed evitare la temuta “cohabitation”, sempre che temuta lo sia davvero. Per il Front National c’è il rischio di raccogliere ancora una volta ben poco rispetto a quanto seminato, a causa del doppio turno che impone il sistema elettorale maggioritario.

Con tutta probabilità, quindi, Emmanuel Macron riuscirà ad avere in qualche modo una maggioranza valida e a governare.

– Le aspettative europee

In Europa le aspettative su Macron sono duplici: gli europeisti nostrani sperano che il nuovo Presidente francese riesca a portare un po’ di equilibrio nella politica europea riducendo l’egemonia tedesca e convincendo Berlino ad allentare il cappio sulle politiche del rigore di bilancio.

La BCE, su pressione dei Paesi del Nord, potrebbe iniziare a ridurre (e porvi termine nel giro di un anno) alla politica monetaria espansiva. I Paesi del Sud, tra i quali l’Italia, tenuti in vita dal Quantitative Easing, temono una nuova impennata degli spread e sperano in Macron per fare passi avanti sulla via del “più Europa” e chiedono la condivisione del debito pubblico attraverso l’emissione degli Eurobonds.

Ma è il neo eletto Presidente francese a smorzare gli entusiasmi, dichiarando: “Io non sono in contrapposizione a Berlino, piuttosto sono con Berlino. Che lo si voglia o meno. Perché il nostro destino è questo. Abbiamo delle differenze. Avremo qualche disaccordo. Ma non andrò oggi a dire alle francesi e ai francesi che andrò a difendere i loro interessi a Berlino. No”.

Dal canto loro, i Paesi del Nord (la Germania) sperano che Macron dia nuova linfa al programma di “riforme strutturali” che Hollande non ha saputo completare, sia per timore di inasprire il malcontento popolare e sia per cercare in qualche modo di ritrovare un minimo di consenso elettorale. I tedeschi pertanto si aspettano che Macron faccia macelleria sociale, come ha promesso di fare nel suo programma. E gli Eurobonds? Non se ne parla, non ora. Prima fate le riforme, poi vedremo (lo ha confermato anche Carsten Schneider, socialista, portavoce di Martin Schultz).

È evidente che Emmanuel Macron non sarà artefice di nessuna svolta e gli Stati Uniti d’Europa continueranno ad essere un miraggio. Se sarà accorto, tra cinque anni lascerà il Paese così come l’ha trovato, comportandosi alla stessa maniera del suo predecessore. Se sarà così folle da dare inizio alla macelleria sociale promessa, incontrerà la resistenza e l’opposizione dei lavoratori francesi, che già ora non hanno paura di optare per gesti disperati. Il consiglio è di star lontani dai confini francesi per i prossimi 5 anni.

Le posizioni euroscettiche sotto attacco

Se chi dice che la vittoria di Macron ha sconfitto il populismo sbaglia, certamente non ha torto chi invece ricorda che si sono allungati i tempi della disgregazione dell’Euro e dell’Unione Europea.

Una vittoria della Le Pen in Francia avrebbe sicuramente posto fine ai sogni europeisti e con l’uscita della Francia dall’Euro, la moneta unica non sarebbe sopravvissuta. Non potendo ora far più affidamento in un aiuto esterno (dalla Francia, o da Trump) le forze sovraniste in Italia debbono provare a cavarsela da sole.

Non sarà un compito facile: in Italia il Partito Democratico a guida renziana è ancora forte. A fargli concorrenza c’è praticamente solo il Movimento 5 Stelle, che se mai fosse stato euroscettico in passato, certamente ora ha ammorbidito di molto le sue posizioni, tanto che alcuni esponenti di spicco hanno auspicato anche una proficua collaborazione con Macron.

Le prossime elezioni politiche se la giocheranno queste due compagini, indipendentemente dalla legge elettorale. Probabilmente un sistema proporzionale darà più chance anche al polo di centro-destra, ma in questo momento questo polo appare molto disunito.

Dopo le elezioni Presidenziali in Francia, Silvio Berlusconi ha indirizzato un appello a Matteo Salvini, dicendogli che la “sconfitta” di Marine Le Pen dimostra che l’estremismo non paga e che in Europa è necessario un cambiamento moderato.

Anche all’interno del carroccio, alcuni esponenti della vecchia guardia hanno iniziato a fare dichiarazioni non in sintonia con la linea del Segretario federale (che probabilmente sarà riconfermato al suo posto tra pochi giorni). E’ il caso di Roberto Maroni che tramite stampa ha detto: “la fase lepenista è conclusa, la Lega torni alle origini”. Il Governatore della Regione Lombardia chiede una ricompattazione del centro-destra e il ritorno della Lega alle battaglie di sempre per “difendere il Nord”.

Per il presidente della Regione Lombardia il referendum sull’autonomia del 22 ottobre prossimo ha un solo scopo: “per tenerci più soldi e mandarne meno al Sud. Io voglio che la metà del nostro residuo fiscale, e cioè 27 miliardi, resti in Lombardia e non vada ad alimentare altri sprechi al Sud. Questa è la Lega Nord, questo è il messaggio forte che noi dobbiamo rilanciare”. E sull’Europa aggiunge:  “Io ho sempre considerato l’alleanza con Le Pen tattica e non strategica, lei ha un progetto diverso da quello della Lega, vuole tornare agli stati nazionali. Noi siamo per l’Europa delle Regioni”.

Bisogna ricominciare dalle basi

Il rischio che si corre in questo momento è di vedere tornare la critica alla moneta unica su posizioni marginali nel dibattito politico e di non riuscire ad offrire alle persone una spiegazione adeguata dei loro problemi reali.

Perché è certamente più facile spiegare che il problema della crisi economica sono la corruzione e gli sprechi e che tutto si risolve con il reddito di cittadinanza, che non far capire agli elettori che il problema riguarda la perdita degli strumenti sovrani dello Stato, sulla politica monetaria e su quella economica e di bilancio.

Ma i problemi dell’Italia restano tutti, dalla crescita che non c’è e che secondo le stime UE si attesterà allo 0,9% per quest’anno e all’1,1% il prossimo, alla disoccupazione strutturalmente stabile all’11,5%, al debito pubblico che rimane superiore  al 132% e che, a parere di del Commissario Pierre Moscovici, avrà “un ‘leggero aumento’ nel 2017, dovuto anche alle risorse aggiuntive stanziate per il sostegno pubblico al settore bancario e agli investitori retail”.

Risparmiatori che dopo il danno ora subiscono pure la beffa: i dipendenti dell’ex Banca Etruria, accusati di essere gli unici colpevoli delle truffe ai danni dei clienti, hanno controdenunciato i risparmiatori azzerati che li avevano citati in giudizio per vedere se potevano recuperare qualcosa di quel che hanno perso. E per ultimo ma forse più importante, c’è la situazione dei terremotati del centro Italia che ancora aspettano di uscire dalle tende.

Per questo motivo è necessario che il fronte sovranista utilizzi questo tempo in più concesso dalle elezioni francesi per ricompattarsi e per trovare il modo di arrivare a farsi comprendere dalla gente.

Sarà necessario probabilmente ripartire dalle basi e continuare spiegare perché è l’Euro il problema della crisi.

L’Euro è il problema, non la soluzione

L’abbiamo detto tante volte: l’austerità e l’Euro sono strettamente legati. Non può esserci politica economica diversa se si vuole restare nell’Eurozona, il caso greco e il tradimento di Tsipras ce lo hanno dimostrato.

Quindi è inutile promettere di andare in Europa a cambiare i trattati ad abolire il Fiscal Compact, a chiedere flessibilità sulla regola del 3%. Qualsiasi politica economica diversa dall’austerità per funzionare ha bisogno della solidarietà dei Paesi del Nord verso quelli del Sud (trasferimenti fiscali, aumento dell’inflazione e quindi dei salari).

La risposta dei Paesi che trovano vantaggio da una moneta debole rispetto alla forza della loro economia sarà sempre una: No.

Accettando l’Euro abbiamo accettato uno scambio: l’Italia ha accettato di dotarsi del forte Marco tedesco, mentre la Germania ha accettato di adottare la debole e svalutata Lira italiana. È con la Lira che la Germania sfora il surplus commerciale, non per altre grandi qualità morali e organizzative. È con il Marco tedesco che l’Italia ha distrutto il suo mercato interno, seppur l’export dia risultati positivi. Non è per la corruzione, per i vitalizi dei politici che gli italiani hanno perso lavoro e risparmi. Questi problemi c’erano anche prima, ma prima non ce ne importava perché stavamo bene. Ora che siamo disoccupati chiediamo Giustizia: è pur giusto, ma la Giustizia non risolve i problemi economici.

– Il problema del sistema monetario a cambi fissi

Ricominciare dalle basi, quindi. Lo facciamo con le parole di Alberto Bagnai, in un suo recentissimo post di Goofynomics:

“Riusciranno i nostri leader, di qualsiasi colore, a capire che quello economico non è un tema residuale? Anche in Italia abbiamo evidenze analoghe a quelle raccolte da Agénor. Riusciranno a capire che dall’estero non arriverà la cavalleria a salvarli, ma, come ci ammonisce regolarmente Andrea Mazzalai, una nuova crisi alla quale, in queste condizioni, saremo costretti a rispondere con altri cinque punti di disoccupazione in più?

Indipendentemente da questo, riusciranno a capire che le divergenze fra paesi membri e dentro i paesi membri sono destinate comunque a crescere, rendendo al tempo stesso più costosa (e quindi meno proponibile e sostenibile politicamente) un’Europa federale, e più probabile una disgregazione violenta, quando la polarizzazione dei redditi diventerà a sua volta politicamente insostenibile?

Quello che qui non si può dire, Dani Rodrik a Harvard può permettersi di dirlo: ‘Gli economisti sanno da tempo che un tasso di cambio gestito male può essere disastroso per la crescita economica‘. Il suo contributo, suo di lui, di Rodrik, sarebbe quello di dimostrare che non solo un cambio sopravvalutato deprime la crescita, ma un cambio sottovalutato la stimola!

Che novità! Qual è la conseguenza pratica, qui e ora, di questo brillante risultato teorico dimostrato utilizzando dati dell’universo mondo? Semplice! Siccome la moneta unica ha, per definizione, un valore intermedio fra quello delle economie più forti e di quelle più deboli, essa è debole per le forti (stimolandone la crescita) e forte per le deboli (ostacolandone la crescita). Questo ci spiegano i migliori ad Harvard: che la tendenza alla disgregazione reale dell’Eurozona, cioè alla divergenza delle sue economie (le migliori staranno meglio e le peggiori peggio), è oggettiva, e che non c’è nulla che possa renderla politicamente sostenibile, tranne la volontà dei paesi deboli di assoggettarsi in qualità di colonie alla potenza egemone (come è successo alla Grecia)”

– I critici dell’Euro al di fuori di Bagnai

Gli fa eco Paul De Grauwe, docente di economia politica alla London School of Economics and Political Science, con un pezzo pubblicato su “Il Sole 24 Ore”:

“Perché l’economia italiana va così male? L’euro c’entra qualcosa? Sono domande che molti si pongono. La risposta a queste domande riveste una grande importanza per il futuro politico ed economico dell’Italia.

È evidente che l’Italia non ci ha guadagnato molto a stare nell’Eurozona. La si può vedere così: dal 1999, quando è stato creato l’euro, la competitività di molti Paesi dell’Europa meridionale (più l’Irlanda) ha subìto un notevole deterioramento, fino allo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona, l’Irlanda ha visto salire il costo unitario del lavoro del 45%, la Grecia del 35% e la Spagna del 28 per cento.

Insomma, questi Paesi hanno subìto un pesantissimo calo della competitività, che ha penalizzato le esportazioni e determinato un forte disavanzo delle partite correnti. L’Italia è al terzo posto in questa classifica, con una perdita di competitività di quasi il 30 per cento. Come è accaduto per gli altri Paesi, questa perdita ha inciso pesantemente sulle esportazioni.

La grande differenza tra l’Italia e gli altri Paesi citati si è avuta dal 2008 in poi, quando Irlanda, Grecia e Spagna hanno avviato un processo di «svalutazione interna» (il termine usato dagli economisti per dire che questi Paesi hanno seguito politiche finalizzate a ridurre salari e prezzi rispetto agli altri membri dell’Eurozona), con risultati positivi.

Queste svalutazioni interne hanno riportato la competitività ai livelli antecedenti alla nascita dell’Eurozona. L’Italia non ha seguito lo stesso percorso: a partire dal 2008, la sua svalutazione interna (misurata con la diminuzione del costo unitario del lavoro relativo) è stata inferiore al 10 per cento. Il risultato è che il Paese è gravato da una perdita di competitività che appare inchiodata al 20 per cento. In altre parole, in Italia il costo unitario del lavoro rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona è più alto del 20% dalla creazione dell’euro.

In un’unione monetaria è essenziale che quando un Paese perde competitività esista un meccanismo in grado di ripristinarla. Questo meccanismo sembra aver funzionato in Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia. È molto doloroso e spesso è fortemente osteggiato da chi vede diminuire il proprio salario. Ma è anche inevitabile, nell’ambito di un’unione monetaria. Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia sembrano essere riusciti a vincere l’opposizione alla svalutazione interna.

Il fatto notevole è che l’Italia non riesca a introdurre un meccanismo in grado di ripristinare la sua competitività, con il risultato è che questa perdita massiccia e incontrastata di competitività continua a erodere la sua capacità di esportazione. Se non si interviene, gran parte dei settori di esportazione del Belpaese scompariranno. Tutto questo è all’origine dell’incapacità dell’Italia di ricominciare a crescere e ridurre il suo indebitamento.

La conclusione che ricavo da quanto sopra è che l’Italia non sembra possedere le istituzioni politiche necessarie per imporre svalutazioni interne. Naturalmente, come si è detto prima, questo tipo di svalutazione interna è molto dolorosa e incontra forti resistenze, ma è necessaria se si vuole rimanere in un’unione monetaria. L’esperienza degli altri Paesi dell’Eurozona che avevano registrato un drastico calo di competitività dimostra che è politicamente possibile realizzare dolorose svalutazioni interne. A quanto sembra, però, in Italia non lo è.

L’inevitabile conclusione è che l’Italia non funziona bene in un’unione monetaria. Le sue istituzioni politiche la rendono inadatta all’Eurozona. Se queste istituzioni politiche non cambieranno radicalmente, l’Italia sarà costretta a lasciare la moneta unica: non può rimanere ferma a guardare il suo tessuto economico che continua a deteriorarsi“.

Euro come strumento di un nuovo imperialismo

Non si può essere contrari all’immigrazione selvaggia (che importa schiavi per abbattere il costo del lavoro e a fare “svalutazione interna”), alla mondializzazione, alla precarizzazione, alla delocalizzazione, alla globalizzazione, senza essere contrari all’Euro.

La moneta unica è lo strumento necessario a produrre tutto questo e va combattuto. La moneta è uno strumento che accentua le divergenze economiche tra i Paesi e le aggrava. È l’arma che Paesi forti utilizzano per egemonizzare e ridurre a colonie i Paesi più deboli. Ogni popolo che vuole vivere libero, autonomo e indipendente nel proprio territorio deve dotarsi della capacità di battere moneta propria. Non è un discorso nazionalista, ma di libertà e di indipendenza. L’Euro non è altro che lo strumento di coercizione più potente nelle mani di Babele.

Marco Muscillo.