Donald Trump

Se qualcuno s’aspettava, per Donald Trump, un debutto all’Assemblea Generale dell’ONU sottotono, sarà certamente rimasto deluso: il Presidente degli Stati Uniti, infatti, è apparso più scoppiettante e galvanizzato che mai, per nulla intimorito dal fatto di trovarsi in quel che dovrebbe essere il tempio del diritto internazionale (anche se molto spesso, come sappiamo, non lo è stato).

L’impressione generale è che, col suo discorso all’ONU, Donald Trump abbia messo una pesante pietra tombale sopra le linee guida stabilite dalla precedente Amministrazione Obama: e quindi non soltanto la minaccia di “una distruzione totale della Corea del Nord”, ma anche la minaccia neppur troppo ventilata di un intervento armato in Venezuela, di una collisione militare con l’Iran pur di stracciare l’accordo sul nucleare, e di congelare il dialogo timidamente avviato con Cuba.

L’intervento di Trump è stato scritto da Stephen Miller, l’ultimo superstite della un tempo nutrita corrente “nazional-populista” di Steve Bannon, e già da lunedì sera alcune anticipazioni avevano fatto capire che sarebbe ruotato soprattutto intorno al concetto di “sovranità”. Tuttavia alla fine Trump ha un po’ contraddetto questa impostazione, preferendo ribadire un concetto che gli è forse molto più caro e che soprattutto è stato il suo principale cavallo di battaglia in campagna elettorale: “America First” e “Make America Great Again”, quasi al punto da apparire in politica estera persino più aggressivo dei vecchi neocon. La differenza rispetto a Bush è che l’Asse del Male stavolta contempla il Venezuela al posto dell’Iraq e che l’obiettivo principale è di affermare, nel mondo, non la democrazia all’americana ma piuttosto la potenza degli Stati Uniti.

Trump ha esordito spiegando che “ci troviamo in un tempo d’immense promesse e grandi pericoli”. Per realizzare le prime ed evitare i secondi, “il nostro successo dipende da una coalizione di nazioni forti e indipendenti, che abbracciano la loro sovranità e promuovono sicurezza, prosperità e pace, per se stesse e il mondo”. Questo passaggio è certamente interessante, perché fa capire quale sia la visione del multilateralismo da parte di Trump, quasi una specie di orchestra dove però gli Stati Uniti recitano il ruolo direttivo. In un mondo ormai sempre più multipolare, l’impressione è che Trump vagheggi una situazione internazionale dove Washington recita il ruolo di primo fra i pari, in un’auspicata ma non facile armonia con le altre grandi potenze del pianeta.

E infatti ha detto: “Nazioni forti e sovrane consentono a Paesi con valori, culture e sogni diversi non solo di coesistere, ma di lavorare fianco a fianco sulla base del reciproco rispetto. In America non vogliamo imporre il nostro modo di vita agli altri, ma lasciarlo brillare come un esempio per tutti” e “Da presidente metterò sempre l’America al primo posto, così come voi dovreste fare con i vostri Paesi”.

Secondo Trump l’ONU deve diventare il luogo dove le grandi come le piccole nazioni dovranno incontrarsi per risolvere i loro problemi e soprattutto per scongiurare i pericoli. Il primo, non ha esitato a dirlo, è rappresentato dalla Corea del Nord. Secondo il Presidente statunitense il “Rocket Man” Kim Jong-un è avviato verso una “missione suicida” che lo condurrà alla distruzione del proprio paese. “Se saremo costretti a difenderci, distruggeremo totalmente la Corea del Nord”, ha infatti ribadito. Anche l’Iran non ha ricevuto particolari parole d’apprezzamento: “maschera una dittatura corrotta dietro la falsa pretesa della democrazia”. Queste ed altre parole sull’Iran hanno scaldato gli animi del premier israeliano Benyamin Netanyahu, che ha definito il discorso di Trump “il più coraggioso sentito negli ultimi trent’anni”.

Donald Trump ha avuto parole anche per “il terrorismo dell’Islam radicale”, promettendone l’annientamento, e ringraziando Russia ed Arabia Saudita per l’aiuto importante dato nel raggiungere questo obiettivo, ed ha toccato il tema delle “migrazioni indiscriminate”, giudicandole “una minaccia alla stabilità globale”. Infine ha parlato della “dittatura socialista di Maduro”, avvertendo che “il Venezuela è a un passo dal baratro non perché non ha applicato bene il socialismo, ma perché lo ha applicato. Siamo pronti a ulteriori azioni, se il governo persisterà nell’imporre l’autoritarismo”.

La sensazione generale, insomma, è che la politica estera di Trump confidi ancora molto nell’improvvisazione, anche perché viziata da una conoscenza reale dei problemi tutto sommato ancora troppo relativa.