C’è chi pensava che Donald Trump sarebbe stato solo una meteora, chi pensava che fosse una sorta di attore e che la sua candidatura non fosse altro che una simpatica boutade, chi addirittura fosse stato mandato per “facilitare” la vittoria di una candidata impopolare ed inetta come Hillary Clinton.

Pochi erano a confidare nella sua vittoria: i media tradizionali, anche a poche ore dalle elezioni, gli conferivano possibilità di vittoria risibili (l’Huffington Post dava alla Clinton il 98,1% delle possibilità di vittoria, e a Trump solo l’1,6%!), e sembrava che il tanto vituperato tycoon dovesse subire una vera e propria batosta e ritirarsi nel suo mondo gli affari.

La storia, nelle elezioni dell’8 novembre, ha dato torto a tantissimi: media, sondaggisti, analisti, giornalisti, politici vecchio stampo, e, soprattutto, al “retaggio” tradizionale delle convenzioni politiche.

La vittoria dell’antipolitica. Trump ha vinto, ed il “classico” politico non solo è stato decisamente sconfitto, ma ha anche subito una vera umiliazione, proprio per la trionfalità con la quale era stato annunciato un altro tipo di risultato. Trump è passato da incognita ridicolizzata a vincitore, a deus ex machina in una situazione delicata: è diventato Presidente, ed è bene (e molti già lo hanno capito) che i grandi sciorinatori di previsioni politiche cambino il loro tono. Come disse tempo fa Trump stesso: «Molti hanno riso di me nel corso degli anni. Ora non ridono più».

Personalmente, e lo scrissi a suo tempo, non ho mai minimamente creduto ai sondaggi: la distanza reale tra i due candidati è sempre stata minima, di pochissimi punti, e, anche se molti sondaggisti fornivano cifre spropositate come 10-12% di vantaggio per la Clinton, ciò non corrispondeva affatto alla realtà.

Una realtà che, e ora possiamo ben confermarlo, conoscevano ma preferivano mistificare, come ora stanno rimaneggiando sul loro completo fallimento: “elettori silenziosi che votavano Trump ma non lo volevano dire”, “gli indecisi che hanno scelto Trump” le teorie più in voga per salvare una impietosa ritirata e un completo sbugiardamento.

La questione sondaggi. Considerando che i sondaggi, di media, prendono a campione dalle centinaia a qualche migliaia di persone, era già “dubbio” che potesse essere attendibile da oltre 100 milioni di elettori; ma, anche ridando autorità a questo tipo di analisi, il tipo di “giustificazione” adottata dai sondaggisti è una incognita che è certamente sempre esistita, un’incognita ovvia e che sicuramente si sarà presentata molte altre volte in molte altre elezioni nel corso della storia. Usarla come scusa è una semplice tattica per far credere che dietro il fallimento dei sondaggisti ci siano state tutt’al più “sviste”, errori di sistema che non si potevano prevedere: incompetenza, insomma.

Ma questa volta non si tratta di incompetenza: l’incompetenza è quando qualche singolo sito di sondaggio sbaglia nelle previsioni. Ma se praticamente tutti sbagliano, nello stesso irreale e tendenzioso modo, creando dunque aspettative assurde e ingannevoli per il mondo, quella non è incompetenza; quella è voluta mistificazione.

Forse la volontà di non spaventare, il tentativo di indurre i sostenitori di Trump che “non avrebbero vinto” (quindi tanto valeva non votare!), la volontà forse di non “spaventare” il popolo, gli Stati amici, le borse anche prima dell’8 novembre, e forse molti altri calcoli.

L’unica constatazione vera, guarda caso, la fece Donald Trump, addirittura il 24 ottobre, beccandosi rimbrotti di complottismo da certi opinionisti (che sicuramente ora si saranno riveduti, anche se lungi dal dargli ragione!): “I democratici stanno confezionando sondaggi falsi per stroncarmi. Stiamo vincendo ma la stampa si sta rifiutando di scriverlo”.

Uno schiaffo morale alla Clinton e ai democratici. La vittoria di Donald Trump non è solo uno schiaffo alla mistificazione operata dai sondaggisti e dai media: è un montante agli schemi della politica tradizionale. E Hillary Clinton, nonostante si presentasse come “progressista”, democratica, come la prima donna Presidente, in realtà era il vecchio, il marciume che il popolo americano non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso.

Che mancasse di qualità, che non sapesse creare appeal attorno a sé (se non un appeal basato sulla paura dell’avversario, e non sulle speranze che poteva suscitare), che fosse algida, calcolabile, esaltata ma non nel senso che piace alle masse (in un senso di instabilità psichica), erano tutti aspetti evidenti già ben prima delle elezioni; solo analisi baldanzose e superficiali ignoravano davvero tutto ciò. Ma questo lato “politicamente fallimentare” della Clinton era stato coperto da sondaggi falsamente “rassicuranti” e da una pletora di star e di perbenismo che prefigurava scenari di sicurezza, di trionfo e tranquillità!

Hillary Clinton è in politica da troppi anni, prima come First Lady, senatrice, poi come Segretario di Stato: una donna prevedibile, della quale si conosce il metodo di azione, e che nei suoi anni di potere ha dato grandi dimostrazioni di incapacità, di errori gravissimi (Iraq, Libia, Siria, solo per far tre nomi), e di non esser capace di negoziare con altri Stati. Cosa ci si poteva aspettare da lei?

Parliamo oltretutto di una candidata che, come già scrissi in precedenza, nuotava nei soldi che le erano stati dati da arcinoti istituti di credito, banche, centri di potere: Soros, Goldman Sachs, Wall Street, JP Morgan, per fare alcuni nomi. Nel suo nome, Hillary Clinton riuniva in sé quel marciume di cui il popolo statunitense voleva disfarsi.

Quel marciume, multiforme ma reso così “unitario” nella Clinton, che per troppo tempo si è incollato alla poltrona presidenziale, tra gli scranni del Congresso e nella vita pubblica.

Non era più possibile disfarsene con i classici metodi, le classiche alleanze, i classici discorsetti motivazionali e perbenisti: serviva un uragano, un tifone che sconvolgesse le vecchie certezze e rimettesse in gioco tutto. Quel tifone pieno di speranza si chiama Donald Trump.

La lotta di Trump contro tutto l’establishment americano. Donald Trump non ha disposto del miliardo e oltre di dollari della sua rivale; Donald Trump ha gestito in totale poco più di 500 milioni, quasi tutti provenienti o dalle sue tasche o da cittadini comuni, che avevano impegnato i propri risparmi per quell’ancora di salvezza e novità.

Donald Trump non ha disposto della musica di Bruce Springsteen, della “pubblicità sessuale” di Madonna e Katy Perry, dei concerti di Lady Gaga e delle minacce di Robert De Niro; a Donald Trump è bastato il sostegno di un “duro” come Clint Eastwood, uomo di indiscutibile morale ed indefesso senso civico e morigeratezza.

A Donald Trump sono bastati 5,6 milioni di dollari provenienti dagli apparati industriali del paese (125,2 milioni quelli per la Clinton, ovvero più di 22 volte!), un gruppo di sostenitori compatti, fedeli e appassionati, la capacità di suscitare speranze, una lingua affilata e sottile per addentrarsi tra i punti ciechi dei rivali, una retorica da carro armato che facesse tremare gli avversari, ed una lista di promesse forti, inedite e decise ad essere attuate. Il tifone Donald Trump aveva le carte in regola per vincere, poteva vincere (nonostante nessuno volesse crederlo) e, dunque, doveva vincere.

E lo ha fatto anche in alcune delle storiche tane democratiche come la Pennsylvania e il Michigan!

Come sarà la presidenza Trump? I prodromi per una possibile (e ora sicura) vittoria di Trump sono stati tracciati, ma la domanda è: e ora? Cosa farà il Donald Trump da Presidente? Più che in ogni altra elezione della storia USA, è difficile da fare previsioni accurate. Non solo per l’incredibile numero di variabili in gioco (Congresso, la disponibilità del Partito Repubblicano, un programma ambizioso, il potere delle lobby e della finanza, la forza dei militari, dell’FBI e della CIA, il “check and balance”), ma anche per la variabile fondamentale: Donald Trump stesso.

Donald Trump non è certamente un politico navigato, anche se è stato abilissimo ad infiltrarsi in quegli spazi lasciati vuoti dall’establishment per vincere: è un abile (e sardonico!) oratore, ma sarà un Presidente sullo stesso livello? Indubbiamente la carica vulcanica che lo anima non scomparirà in Trump (uomini politici con simili verve, come Berlusconi o Duterte, non l’hanno abbandonata nemmeno dopo aver vinto), ma è verosimile che il futuro Presidente si impegnerà a rispettare un certo numero di convenzioni politiche e a lenire certe sue uscite.

Per quanto riguarda il suo programma, è sicuramente deciso ad applicarlo in modo integrale, almeno nei punti chiave: non può permettersi né di mancare di rispetto agli impegni che lo hanno portato nella grande politica né di deludere gli elettori che lo hanno voluto proprio per le sue scelte “radicali”.

È improbabile pensare ad un Trump che in corsa modificherà la sua volontà e si appiattirà ad essere un “presidente come un altro”: lui non è in nessun aspetto un presidente come un altro, ed è stato voluto fortemente proprio perché non lo sia.

L’equilibrio tra Realpolitik e Propaganda. È probabile, tuttavia che possa esserci la classica tensione tra il Donald da campagna elettorale e il Donald Presidente: quanto vorrà (ma soprattutto potrà) trasformare in atto di ciò per cui ha combattuto per mesi nei comizi? A mio modo di vedere, una buona parte delle sue proposte.

Il Congresso è in entrambe le camere a maggioranza repubblicana e anche se è vero che si tratta quasi nella totalità di repubblicani fedeli all’establishment e fortemente critici verso Trump in campagna elettorale, è tuttavia assai verosimile che, con la vittoria del “loro” (anche se non proprio) candidato, si renderanno molto molto più accondiscendenti, malleabili, vista la forza che ha ora il tycoon, anche nello stesso Partito repubblicano.

Lo speaker repubblicano Paul Ryan (che è sempre stato ambiguo verso Trump) ha teso una forte mano dopo la vittoria del candidato repubblicano: “Ha vinto da solo, guiderà un partito unito”; e ciò fa ben sperare in una buona collaborazione tra il Grand Old Party e il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Il Congresso, attualmente repubblicano, sarà tendenzialmente favorevole ad approvare molte delle decisioni di Donald Trump, e sarà quanto più favorevole in quelle tendenzialmente vicine ai princìpi repubblicani classici: abbassamento della tassazione, riforma dell’Obamacare, revisione della politica di immigrazione  e altro. Le possibilità di azione del tycoon nei riguardi del Congresso, dunque, sono piuttosto ampie, ma anch’esse condizionate, in particolare dalla logica repubblicana tradizionale, dagli interessi del Partito ma anche dalla necessità di salvaguardare l’unità.

Il peso delle istituzioni militari e la politica estera. Non è tuttavia solo il Congresso a cui Donald Trump deve badare: la polizia ha un suo apparato burocratico molto potente e influente, capace certamente di far sentire il suo peso. Senza contare la grande voce che hanno i generali nella politica interna. In questo ambito, dunque, la sua politica di distensione verso la Russia potrebbe incontrare una sorta di “frenata fisiologica”, ma sarà una politica che certamente avverrà e avrà seguito: non sarebbe d’altronde il primo caso di un Presidente deciso ad un appeasement con Mosca!

Trump, nei limiti del possibile e certamente non sollevando contro di sé i più alti pezzi militari, creerà sicuramente un’intesa con Putin (non fosse altro per essere il nemico di Clinton e Obama!): le relazioni tra i due potrebbero essere quasi più su un livello “personale” che strettamente strategico, principalmente poggianti sulla logica di una strategia win-win (c’è chi ha ipotizzato una sorta di nuova spartizione del globo in sfere di influenza, o in sfere dove vige “libertà di azione” per una delle due potenze) e si concretizzeranno in una collaborazione nei principali teatri di operazioni militari, in nuovi formati di Conferenze sui problemi internazionali e, probabilmente (ma questo sarà possibile forse solo dopo tempo), in qualche nuovo accordo di rilievo sugli equilibri strategici.

Trump e il Medio Oriente. Considerando inoltre il conclamato disinteresse di Trump per lo specchio per le allodole dei “diritti umani” (ormai solo un’arma retorica per alzare la posta in gioco in determinate circostanze), una vera intesa e collaborazione nel Vicino Oriente è più che possibile: al-Sisi (il primo a congratularsi con Trump) sarà ben felice di avere un Presidente USA che non faccia polemiche per la spietata repressione dell’islamismo.

Assad sa che così ci potrà essere una sua (forse timida e per ora solo ufficiosa) “riabilitazione” e certamente una collaborazione (Trump lo ha detto parecchie volte in campagna elettorale), Erdoğan si sentirà certamente rassicurato da un Presidente che ha dichiarato di non interessarsi nelle faccende interne turche, mentre Israele rimane un alleato ed interlocutore.

Le possibilità di un’intesa sulla Siria, che con la Clinton non ci sarebbero state, visto che voleva proseguire l’inconcludente e fallimentare linea obamiana, sono dunque molte di più, e viaggiano attorno al ridimensionamento (in positivo) di Presidenti come Assad e Putin.

L’inimicizia europea. Per quanto riguarda i rapporti con altri Stati, certamente i più tesi saranno quelli con gli Stati europei: finora l’unico Primo Ministro europeo che sembra aver dimostrato sincero entusiasmo per la vittoria di Trump è l’ungherese Viktor Orbán, che ha dichiarato che la vittoria di Trump è una “magnifica notizia! La democrazia è ancora viva!”.

Quasi tutti gli altri leader europei si sono sì complimentati con il tycoon per la vittoria, ma con scarso entusiasmo (viste anche dichiarazioni passate pro-Clinton).

Il Presidente francese Hollande disse in agosto che “gli eccessi di Trump fanno venire il voltastomaco”, e che con una sua vittoria esisteva il rischio di “un’ondata di candidati conservatori”. Questo risultato elettorale è stato certamente indigesto a Parigi, che ha commentato con la promessa di essere “vigili e sinceri” con l’alleato USA, ma soprattutto con queste parole di Hollande: “Questa elezione americana apre un periodo di incertezza. Va affrontata con lucidità e chiarezza”.

Più morbidi i toni dal Regno Unito della conservatrice Theresa May, attualmente in fase di uscita dall’Unione Europea, che parla di una “relazione speciale” tra i due Stati da rinsaldare. Ma ad esultare realmente, a Londra, è l’ex leader dell’UKIP e protagonista della Brexit Nigel Farage, amico e grande sostenitore di Donald Trump, che, come sappiamo, ha appoggiato pienamente l’uscita di Londra dalla UE. Un’amicizia leale ma certamente “scomoda”.

Pensierosa ma cordiale Angela Merkel, che ha parlato di “valori comuni” e “stretta collaborazione” tra la Germania e gli Stati Uniti; ma emerge, in ogni caso, una vera inquietudine nel governo della CDU, che nel 2017 se la dovrà vedere con gli euroscettici di AfD, un partito che ha molte cose in comune con Donald Trump.

Il governo italiano non si è dimostrato molto soddisfatto dalla vittoria del risultato delle urne USA: vari esponenti (tra cui il Ministro Boschi) avevano espresso la speranza che vincesse la candidata democratica Clinton, per un’ovvia questione di affinità di idee. Ma Renzi, suo malgrado, ha fatto i complimenti a Trump per la vittoria e rimarcato la collaborazione tra i due Stati.

A destare dubbi, semmai, sono le parole del Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che suonano come una critica verso il nuovo Presidente USA: “Non cambia la nostra contrarietà al protezionismo e alle chiusure”. Ad esultare per la vittoria del tycoon nel Belpaese sono state soprattutto le opposizioni: Matteo Salvini, Beppe Grillo e Silvio Berlusconi.

Trump e gli euroscettici. I rapporti con gli Stati europei, dunque, sono verso un crinale discendente: a decidere il futuro di tali rapporti, che basano le loro frizioni su due visioni del mondo diverse e in contrasto, saranno sicuramente le future elezioni, che si terranno a breve in diversi Stati dell’Unione: gli euroscettici, contrari all’immigrazione e per la tutela dei valori nazionali e della sicurezza, potrebbero prendere il potere nel breve periodo in Austria, Olanda, Francia e Germania.

Un’eventuale svolta in questi Stati, oltre a ridisegnare completamente il futuro dell’Europa, ridisegnerà anche i rapporti tra questi Stati e Washington. Donald Trump non ha mai fatto mistero di essere ostile agli apparati burocratici di Bruxelles e all’UE nel modo in cui funziona: il suo sostegno convinto alla Brexit ne è la dimostrazione, ma a ciò si accompagnano le veementi e paonazze reazioni dei burocrati europei alla sua vittoria. Il Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, ha speso parole molto dure: “Sicuramente la relazione transatlantica diventerà più difficile”, ma non dure quanto quelle di Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione UE, che ha dichiarato: “Con lui perderemo due anni, il tempo che faccia il giro del mondo che non conosce”.

I rapporti con l’UE sono e rimarranno tesi: si tratta di due visioni del mondo opposte, di due figure che hanno le radici in concezioni e princìpi opposti.

Si tratta, nel caso della UE, di un tipo di establishment, questa volta burocratizzato e imbrigliato in una serie di trattati e di organismi collaterali, molto simile a quello che Trump ha sconfitto negli Stati Uniti, ed in Europa si sta profilando (ovviamente con la dovute differenze) una lotta a questo establishment che ha molte analogie con quella del tycoon oltreoceano.

Mentre dall’altra parte dell’Oceano si è verificata la vittoria dell’anti-sistema, nel Vecchio Continente questo vecchio sistema è ancora in sella (seppur traballante, dopo la Brexit). Si tratta però di una sella che rischia di essere colpita in molti punti, e che potrebbe, alla lunga e pian piano, abbattere il fantino stesso: come le tessere di un domino, tutta la Mitteleuropa, in meno di un anno, potrebbe avere governi apertamente ostili al vigente sistema europeista, liberista, globalista.

Chi più di Donald Trump ha fatto della lotta al sistema il suo cavallo di battaglia? Chi più di lui può appoggiare, seppur non in modo conclamato, la vittoria di Hofer o del Front National? Qua nasce la faglia. Le linee che collegano la Vecchia Europa agli Stati Uniti si stanno caricando di nubi, tensioni ed eventi imminenti quanto forse non avveniva da molti decenni.

Leonardo Olivetti

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Nato a Brescia nel 1996, studioso del Medio Oriente, dell'Asia Orientale e dell'Europa Orientale.