
Il botta e risposta di questi giorni tra il governo tedesco e il governatore della Banca Centrale Europea appare surreale sotto entrambi i punti di vista. Wolfgang Schäuble, critico nei confronti della prolungata politica di bassi tassi d’interesse attuata dalla BCE, attacca, spaventato dai potenziali effetti distorsivi di così prolungate politiche monetarie espansive per l’economia tedesca. Draghi risponde rivendicando l’indipendenza della Banca Centrale dai Governi dell’Unione. La dialettica evidenzia due macroscopici paradossi. Il governo tedesco si lamenta dell’indipendenza della BCE, sebbene essa stessa sia stata costruita proprio sul “modello Bundesbank”, il cui cardine principale è, guarda caso, l’autonomia di strumenti e di obbiettivi. Dall’altra parte, Mario Draghi, nel suo vano tentativo di far ripartire l’inflazione, ci ricorda come i paesi dell’UE abbiano assegnato imprescindibili poteri politici ad un organismo non elettivo, sottraendoli di fatto al controllo democratico.
I finora supposti vincoli “tecnici” ai quali è legata l’azione della BCE, si scoprono intrinsecamente politici quando in gioco ci sono gli interessi del paese egemone dell’Eurozona. Per essere precisi sono tecnici quando a sollevare obbiezioni è la piccola Grecia, politici quando parla la Bundesbank.
Quest’ennesimo segnale d’instabilità politica e di asimmetrie nei rapporti di forza interni all’UEM ci impone una riflessione proprio sull’indipendenza della BCE, che in ultima istanza è una riflessione sullo stato di salute della nostra democrazia. Il paradigma dell’autonomia della Banca Centrale dal potere politico si sviluppa – come ricordato sopra – nella Germania Ovest per cui l’obbiettivo esterno del controllo della stabilità dei prezzi diviene il principale obbiettivo di politica monetaria, e per difendere il quale si teorizza l’autonomia della “Buba” mettendo in questo modo le politiche monetarie lontano dalle “mani bucate” dei governi eletti dai cittadini. Un ritorno alla visione neoclassica dell’economia declinata in senso ordo-liberista, che decreta la subordinazione dell’obbiettivo interno (pieno impiego) allo stretto controllo dell’inflazione. È facile capire come prerogative basilari per l’esercizio della sovranità popolare assegnate ad un organismo privo di alcun tipo di accountability democratica, rendano insindacabili le decisioni di politica monetaria – quindi intrinsecamente politiche – della BCE.
L’inefficacia dell’espansione monetaria di questi anni (ltro, QE, ecc..) a far ripartire l’inflazione ci dimostra che la natura della moneta è endogena. L’inflazione non è generata da un aumento della moneta offerta, ma, all’opposto, è la quantità di moneta che dipende dal livello dei prezzi. L’implicazione più importante dell’indipendenza della Banca Centrale rimane quindi l’impossibilità per gli Stati di monetizzare i deficit pubblici; il che rende più oneroso il debito pubblico, comprime la spesa pubblica in modo tale da aumentare il livello di disoccupazione, diminuisce i redditi e di conseguenza l’inflazione. Il controllo sulla stabilità dei prezzi previsto dallo statuto della BCE (obbiettivo appena sotto il 2%) implica l’impossibilità per gli Stati dell’eurozona di attuare politiche fiscali che possono portare allo sforamento di questo parametro. Ad esempio nel DEF del 2015, per rispettare l’obbiettivo d’inflazione, il governo italiano ha dovuto prevedere che il tasso di disoccupazione strutturale per i prossimi anni non possa scendere al di sotto del 12%.
Come ormai da tempo ci ricordano non solo importanti economisti, ma anche costituzionalisti – come Luciano Barra Caracciolo – i trattati europei che attraverso questi meccanismi ci impongono deflazione salariale sono in netto contrasto con l’impianto fortemente laburista delle Costituzioni nazionali post-fasciste come quella italiana, di fatto sotto scacco ben prima della riforma di Renzi che fra qualche mese sarà oggetto di referendum.
Luca Scaglione