
Fin dal suo primo apparire, nel 1952, l’ENI è stato considerato dalla concorrenza straniera, ovvero dalle famose “Sette Sorelle” poi evolutesi nel frattempo in varie compagnie ben diffuse e ramificate in tutto il mondo, come un rivale ed un outsider tanto sgradito quanto inopportuno; addirittura come una sorta di “verruca o escrescenza da ignorare (o che al momento non può essere asportata)”, parole testuali del funzionario dell’ambasciata britannica a Roma, Mr. Laskey, scritte in un dispaccio nell’agosto del 1961. I governi occidentali ad esse sottoposte, in primo luogo quelli inglese, francese ed americano, così come le quinte colonne italiane al loro servizio, sono chiaramente stati sempre dello stesso avviso. Onde non lasciare niente di sottinteso, diremo fin da subito che le cosiddette “quinte colonne” italiane erano le fazioni, non necessariamente solo liberali o liberiste, più filo-americane e filo-atlantiste del nostro paese, presenti tanto nel mondo della politica quanto dei media così come dell’industria.
Questa nutrita conventicola bipartisan (compagnie petrolifere anglo-americane, i governi occidentali ad esse soggetti e le quinte colonne italiane che prendevano ordini da tutti e due) ha scatenato fin da subito contro l’ENI una campagna di demonizzazione e delegittimazione, tesa a neutralizzarlo e se possibile pure a debellarlo, che ha probabilmente avuto il suo più alto e sinistro successo nell’attentato costato la vita a Mattei nel 1962. Ciò non ha comunque arrestato tale campagna denigratoria, tant’è che da allora in avanti gli ostacoli contro l’ENI e i suoi ripetuti successi in patria e all’estero non hanno fatto altro che aumentare.
È infatti notizia di questi ultimissimi giorni che l’agenzia di rating Standard & Poor’s abbia abbassato il rating a lungo termine di ENI portandolo a BBB+, con outlook Stabile, rispetto al precedente A- con Credit Watch con implicazioni negative. Il giudizio a breve termine invece è stato confermato a A-2. Ufficialmente a motivare la decisione sarebbe stato l’abbassamento dello scenario del prezzo del petrolio assunto dall’agenzia per le sue valutazioni. Lo stesso giorno anche l’agenzia Moody’s Investors Service ha abbassato il rating a lungo termine di ENI portandolo a Baa1 con outlook Stabile, rispetto al precedente A3, sotto revisione per un possibile downgrade. Anche in questo caso il giudizio a breve termine è stato confermato, a livello P-2.
Curiosamente la notizia giunge proprio quando ENI riporta due grandi successi all’estero, in Ghana ed in Marocco. Nell’offshore del Ghana, infatti, ENI ha ottenuto l’assegnazione di una nuova licenza esplorativa, denominata Cape Three Points Block 4, nel ricco bacino del Tano. Con questa licenza ENI rafforza ulteriormente la propria già salda posizione nell’offshore ghanese. La licenza Cape Three Points Block 4 è stata assegnata a seguito della ratifica da parte del Parlamento della Repubblica del Ghana ad un joint venture composta da ENI Ghana (con una quota del 42,4691%) col ruolo di operatore, Vitol Upstream Tano (col 33,9753%), Ghana National Petroleum Corporation (GNPC, col 10%), Woodfields Upstream Ghana (col 9,5556%) e GNPC Exploration and Production Company (Explorco, col 4%).
Il nuovo blocco ha una superficie di 1127 chilometri quadrati in una profondità d’acqua tra i cento e i milleduecento metri, ed è adiacente al blocco OCTP, anch’esso operato da ENI: in caso di successo esplorativo beneficerà quindi delle sue stesse strutture. ENI opera il progetto OCTP con uno sviluppo sinergico ed integrato delle varie scoperte di olio e gas (Sankofa Main, Sankofa East e Gye-Nyame), secondo un disegno industriale che prevede uno sviluppo dei pozzi sottomarini collegati ad una FPSO che verrà connessa a terra con una linea di trasporto del gas. L’avvio della produzione di olio di OCTP è prevista per il 2017, mentre la produzione di gas, destinato alla rete domestica e per la generazione di energia elettrica, è prevista per il 2018.
Da notare che ENI, presente nel Ghana fin dal 2009 con la controllata ENI Ghana, porta avanti nel paese anche importanti progetti sociali come il Progetto Salute nella Regione Occidentale a beneficio di una popolazione di circa trecentomila persone. È un lascito dell’era Mattei, di quel modo di far politica del fondatore dell’ENI che gli anglosassoni definivano “Matteism” e che comprendeva proprio il trattare da amici i paesi produttori di petrolio, anziché come pecore da tosare. E che, ovviamente, tuttora attira sull’ENI non poche critiche da parte di quei vari ed assortiti circoli che rispondono agli interessi della concorrenza e dei governi ad essa proni od alleati.
Sempre il 30 marzo, ENI ha firmato con Chariot Oil & Gas un accordo per l’acquisizione di una quota di partecipazione (Farm-Out Agreement, FOA) nei permessi esplorativi I-VI nella licenza “Rabat Deep Offshore”, situata nel margine settentrionale dell’Atlantico nelle acque del Marocco. Il completamento di questo accordo è subordinato all’autorizzazione da parte delle autorità marocchine, dei partner attuali e di altre condizioni sospensive. Ora, il nostro lettore, solito a leggere fra le righe, potrebbe pensare: che qualcuno, dispiaciuto da un simile successo dell’ENI in terra e soprattutto in acque marocchine, voglia scongiurare la cosa facendo magari pressioni sulle autorità locali o alimentando un qualsivoglia scoraggiamento? Il dubbio, rispondiamo noi, è del tutto lecito.
L’accordo prevede l’assegnazione ad ENI del ruolo di operatore ed una quota di partecipazione del 40% nella licenza nonché dei diritti di esplorazione su di un’area di 10780 chilometri quadrati e con una profondità che va dai 150 ai 3500 metri. L’area, fino ad oggi rimasta inesplorata, è considerata molto promettente per il rinvenimento di idrocarburi liquidi. Al completamento dell’accordo la composizione della licenza sarà la seguente: ENI (operatore, col 40%), Woodside (25%), Chariot (10%) ed Office National des Hydrocarbures et des Mines (ONHYM, col 25%). A seguito di questo accordo, ENI rafforzerà la propria presenza nel margine atlantico di una regione importante come il Nord Africa, in linea con la strategia della società di diversificare il proprio portafoglio di bacini ad alto potenziale di idrocarburi.
Guardacaso, proprio lo stesso giorno iniziavano le noie anche a livello nazionale. Si sa, s’avvicina ormai sempre più il referendum sulle trivelle. Un referendum decisamente strano, anche quest’ultimo: ricorda infatti molto da vicino quello che a metà degli Anni Ottanta si tenne sul nucleare. Quel referendum ebbe come esito quello di far chiudere le centrali nucleari italiane, che erano sottoposte al controllo delle nostre autorità e che tuttavia venivano presentate come gravi pericoli per la cittadinanza, mentre nessuno degli ambientalisti che lo promuoveva diceva alcunchè delle testate atomiche americane (allora erano duecento circa, oggi sono una novantina, ma in avanzato stato d’obsolescenza e per questo motivo ancor più pericolose), ancor più pericolose e del tutto sottratte al nostro controllo. Non vogliamo con questo dire che quegli ambientalisti, promotori del referendum sul nucleare, fossero delle pedine dell’atlantismo statunitense e degli opportunisti prezzolati magari dalle lobbies del nucleare francese, che volevano togliersi di torno uno sgradito concorrente come il nucleare italiano; ma è stato davvero curioso, anni dopo, ritrovarli tutti quanti insieme appassionatamente, determinati proprio a venderci la vecchia tecnologia nucleare francese all’epoca in cui l’allora primo ministro Silvio Berlusconi voleva reintrodurre il nucleare in Italia. Fu fatto, in quell’occasione (ve lo ricordate?) un altro referendum, stavolta non promosso da loro, ma praticamente contro di loro.
Si parla di trivelle, nel caso dell’ENI, e non del mare che abbiamo ceduto ai francesi, e che magari essi trivelleranno allegramente proprio davanti a noi, indipendentemente dai nostri referenda; e men che meno si parla del progetto di costruire tanti nuovi rigassificatori per trattare il gas di scisto proveniente dagli Stati Uniti (sì, è vero: coi sauditi che hanno abbassato drasticamente il prezzo del greggio immettendone copiose quantità aggiuntive sul mercato, molte imprese statunitensi dello shale gas hanno chiuso i battenti o sono sul punto di esalare l’ultimo respiro; ma non si creda, con questo, che sia stata detta l’ultima parola; anzi, proprio per questa ragione, la vendita di gas di scisto nordamericano al nostro paese è ancora più indispensabile, perché permetterebbe il salvataggio di quel settore economico, oltre ad essere cosa del resto già prevista dal TTIP). Evidentemente per i nostri ambientalisti ciò che può fare l’ENI non va bene, ma quel che possono fare gli americani va invece benissimo: le piattaforme hanno un grave impatto ambientale, i rigassificatori al contrario decorano, tutelano ed abbelliscono l’ambiente. L’importante è che non lavorino il gas della Russia o di qualsiasi altro paese in cui opera l’ENI: quest’ultima, con la sua politica estera parallela a quella della Farnesina, neoatlantista anziché atlantista, è come abbiamo detto “un rivale ed un outisder tanto sgradito quanto inopportuno”.
Così, a Ravenna, Greenpeace ha svolto un’azione dimostrativa presso la Piattaforma Agostino B, in piena violazione delle norme di sicurezza stabilite dalla legge a tutela delle persone e degli impianti, che ha costretto ENI a ribadire da parte propria l’adozione dei più elevati standard e delle più rigorose linee guida internazionali nella gestione delle attività in tutti i contesti in cui opera, a cominciare proprio dall’ambiente marino. Sulle “cento piattaforme mancanti” per le quali secondo Greenpeace non sarebbero stati forniti i piani di monitoraggio, ENI ha spiegato che quelle di propria pertinenza non emettono scarichi in mare, né effettuano la re-iniezione di acque di produzione in giacimento, ragion per cui non esistono piani di monitoraggio prescritti (di fatto, non necessari) e men che meno dati da fornire.
Gli impianti off-shore dell’ENI nel Mare Adriatico sono dedicati alla produzione di gas naturale, la più sostenibile fra le fonti fossili, ed il loro operato è sottoposto al controllo dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) e delle Capitanerie di Porto, coadiuvate dalle ARPA locali. Non solo, ma ENI, come previsto dalle normative, annualmente deve fornire al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (MATTM) un rapporto sulle caratteristiche qualitative e quantitative delle acque e delle attività effettuate sulle piattaforme. Tutte queste analisi hanno fino ad oggi attestato come non vi siano criticità per l’ecosistema marino riconducibili alla produzione di idrocarburi in nessuna delle matrici ambientali monitorate.
I dati elaborati nello studio di Greenpeace sono stati estrapolati proprio dai rapporti di monitoraggio presentati da ENI al MATTM negli ultimi tre anni, relativi a 34 piattaforme. Riguardo al documento pubblicato da Greenpeace, è necessario precisare che i limiti presi in considerazione da Greenpeace per le sostanze oggetto di monitoraggio non rappresentano i limiti di legge definiti per valutare l’eventuale inquinamento derivante da una specifica attività antropica. Tali valori sono utilizzati da ISPRA come riferimento tecnico nelle relazioni di monitoraggio dell’ecosistema marino circostante le piattaforme unicamente per valutarne le eventuali alterazioni, sulla base di un confronto con standard di qualità utilizzati per aree incontaminate.
I limiti presi a riferimento da Greenpeace, ossia gli Standard di Qualità Ambientale definiti nel D.M. 56/2009 e D.M. 260/2010, sono utilizzati per definire una classificazione comune a livello europeo circa lo stato di salute di un ambiente incontaminato in corpi idrici superficiali e riguarda, pertanto, le acque marine costiere all’interno della linea immaginaria distante un miglio nautico (circa 1,8 km) dalla linea di costa, mentre tutte le 34 piattaforme, oggetto dell’analisi, sono ubicate ad una distanza dalla costa compresa tra le sei miglia (10,5 chilometri) e le 33 miglia (60 chilometri).
Infine, sempre su quanto riportato da Greenpeace sull’inquinamento da idrocarburi nel Mediterraneo, è doveroso ricordare come studi effettuati da Università ed Istituti scientifici evidenzino che per il 60% tale inquinamento derivi da scarichi civili e industriali e per il 40% dal traffico navale, che riversa in mare circa 150000 tonnellate annue di idrocarburi. È invece del tutto insignificante l’apporto dell’attività petrolifera (< 0,1%).
Stando così le cose, viene a questo punto da chiedersi: per chi lavorano i signori di Greenpeace? Anche su questo aspetto sicuramente i nostri lettori si saranno già fatti qualche idea.