Da giorni, ormai, negli Stati Uniti è in atto un crescente scontro che non è più soltanto fra gruppi etnici o classi sociali, ma anche fra schieramenti politici e realtà istituzionali. Tutto, com’è noto, è partito diversi giorni fa con l’uccisione di George Floyd: la dinamica di quel brutale placcaggio da parte della polizia, ripresa dai telefonini, è ben presto diventata virale innescando quell’escalation che a quanto pare ancora sembra lungi dal potersi fermare. Le proteste da quel momento hanno cominciato ad estendersi a più città e Stati, e del pari ha cominciato ad estendersi anche il bilancio sia delle vittime che dei feriti: questi ultimi, si noti bene, da entrambe le parti, cittadini ed agenti (tra costoro, va notato, non sono stati pochi quelli che hanno preso le difese dei manifestanti o che hanno espresso loro la propria comprensione, segnando una significativa frattura che sicuramente non deve e non dovrà neanche in futuro passare inosservata). A tal proposito, per avere una diretta della situazione in atto negli Stati Uniti, il servizio fornito dalla storica rete internazionale britannica BBC continua ancora ad essere uno dei più completi.

Ciò che può colpire un osservatore europeo, seguendo tutto lo svolgimento di questa situazione davvero molto “liquida”, è anche la “trasversalità” dei luoghi dove le proteste e gli scontri avvengono: non più, ormai, solo zone considerate come “depresse” o “decadute” degli Stati Uniti a seguito della deindustrializzazione (come Detroit, un tempo capitale americana se non mondiale dell’automobile, ed oggi soprattutto “città fantasma”), ma anche realtà ben più prospere ed economicamente avviate o che sono state, almeno in apparenza, capaci di reagire o sopravvivere, anche da protagoniste, alle numerose incognite della globalizzazione (un caso, ma certamente non è l’unico, potrebbe essere per esempio New York). Perché, in definitiva, il problema è anche questo, anzi, è proprio e soprattutto questo: ad alimentare questi scontri sociali e razziali, che ben presto trovano risonanza e a maggior ragione strumentalizzazione nel mondo politico americano, è un grande “brodo” di malessere sociale, che nella vasta e frastagliata società americana è ovviamente sempre esistito ma che al tempo stesso non è mai stato davvero curato, e che negli ultimi anni è pure peggiorato.

Al momento attuale, secondo l’agenzia stampa americana Associated Press, negli Stati Uniti sarebbero state arrestate almeno 9300 persone, mentre in varie città sarebbero state applicate misure di coprifuoco, che comunque in molti hanno violato anche nel corso dell’ultima notte, continuando a protestare ma soprattutto a darsi ai saccheggi. Anche questo non è un aspetto del tutto nuovo nella storia americana (e non solo americana, si potrebbe aggiungere): di rivolte a sfondo razziale, che magari hanno coinvolto meno persone o meno città, o che in altre occasioni invece si sono caratterizzate per una maggiore consistenza, gli Stati Uniti ne hanno viste parecchie. Quelle degli Anni ’60 e ’70, che avvenivano in un clima di più ampie contestazioni politiche e sociali, sono rimaste nella memoria collettiva anche di molti che quelle stagioni non le hanno vissute, ed hanno alimentato non poche produzioni artistiche, dalla musica alla letteratura fino alla cinematografia. In anni più recenti, solo per fare un altro esempio, ebbe grande eco la rivolta che scoppiò a Baltimora, anche in quel caso per via dell’uccisione di un ragazzo afroamericano da parte di un agente di polizia.

Nemmeno i saccheggi e le razzie sono una novità, e ben si spiegano con un tipo di società che è cresciuta sotto la “tirannide” di modelli di consumismo e di edonismo che, nel corso del tempo, hanno trasmesso un certo preciso tipo di messaggio: pur di avere qualcosa, o di essere qualcosa, ossia “quella cosa”, tutto è lecito e non si deve mai guardare in faccia a nessuno. Il modello sociale ed economico ultracompetitivo “all’americana”, favorendo la sempre più serrata gara fra individui all’ottenimento dei “simboli del benessere”, non può che produrre anche questa contropartita: o ce la si fa o non ce la si fa, o si è dentro o si è fuori, e chi è fuori è un perdente, uno sconfitto, un fallito, cioè un “loser”. E’ però inevitabile che molti “losers” non accettino tanto facilmente la sconfitta, interiorizzando e covando così una sorta di rancore e di desiderio di vendetta sociale. La ribellione, il saccheggio, la violenza, e nei giorni di quiete certi vizi autodistruttivi come le dipendenze da cibo, gioco, alcol o droga, sono automatiche espressioni di questo misto di frustrazione e desiderio di rivalsa.

Non è, dunque, soltanto una questione interetnica o interraziale che dir si voglia, anche se di primo acchito si è magari portati a vederla in questo modo. Peraltro, la politica americana in questo senso ci mette pure del suo, dal momento che cerca come al solito (ed è inevitabile, e pure in Italia ne dovremmo sapere qualcosa, data la stessa abitudine) di ridurre il tutto soprattutto ad un match fra Democratici e Repubblicani: ma del resto le elezioni presidenziali sono dietro l’angolo e, parafrasando un tale, “la Casa Bianca val bene una rivolta”.

Avatar
Nato a Pisa nel 1983. Direttore Editoriale de l'Opinione Pubblica. Esperto di politica internazionale e autore di numerosi saggi.