Le recenti visite del premier Matteo Renzi in Africa, in particolare in Etiopia ed in Kenya (dove ha tra l’altro commesso la clamorosa gaffe di farsi vedere con addosso un giubbotto antiproiettile, testimoniando il provincialismo dell’italiano piccolo piccolo che ha sentito parlare degli al-Shabaab e si premunisce “perché non si sa mai…”) e successivamente del presidente statunitense Barack Obama in Etiopia non invita di certo alla calma in paesi da ormai lungo tempo soggetti a pressioni e sollecitazioni politiche e militari d’ogni genere come l’Eritrea e la Somalia. Ma anche altri paesi del Continente Africano, da questo punto di vista, non possono certo definirsi tranquilli.
La verità è che, stante l’ormai assodata e sempre più palese penetrazione cinese in Africa, le potenze occidentali, in primis proprio gli Stati Uniti, si sentono ormai sempre più spacciate e nella necessità di dover reagire in qualche modo: in qualsiasi modo. In Costa d’Avorio la Francia di Sarkozy ha fatto fuori Gbago senza troppe cerimonie, sostituendolo con uno dei suoi tanti camerieri, Ouattara. In Libia sempre la Francia, insieme alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e al Qatar, ha provveduto a debellare Gheddafi, i cui progetti per l’unità africana (anche in senso economico e monetario) non prescindevano ovviamente da un forte avvicinamento alla Russia e alla Cina.
E’ ben noto come tuttora, nella cosiddetta “Françafrique” (o ex Françafrique, si potrebbe dire, almeno riferendosi ad alcuni lodevoli casi), non si possa commerciare senza il consenso del governo di Parigi. Meno male che parliamo di Stati sovrani, divenuti indipendenti fin dal lontano 1960!, verrebbe spontaneo esclamare.
L’Algeria, la cui indipendenza è ben nota ed è stata conquistata con le unghie e con i denti, ma soprattutto col sangue, è stata posta ripetutamente sotto bersaglio in occasione delle cosiddette “primavere arabe”, un’azione guidata dall’Occidente per abbattere i vecchi governi nordafricani e mediorientali e presentata dai media occidentali come rivoluzioni spontanee contro dittature dipinte ormai come “fuori dal tempo e dalla storia”.
Questo progetto, come abbiamo già avuto modo di denunciare in questo nostro giornale, è stato preso in considerazione nel 2014 per abbattere anche altri tredici governi africani non giudicati “graditi” dall’Occidente a causa della loro vistosa amicizia con la Cina, con la Russia e coi BRICS in generale: dal Ciad al Sudan, dall’Eritrea alla Guinea Equatoriale, dal Camerun al Burundi, e così via. Fortuna vuole che questo programma, delineato in occasione della Conferenza “USA – Leader Africani” di Washington del 2014, non abbia avuto alcun successo, dal momento che per esempio in Burundi le elezioni sono state regolarmente vinte dal Presidente uscente, e ciò a dispetto del fortissimo clima d’intimidazione che pure era stato instaurato dalle opposizioni filo-occidentali.
Ma ecco che ora Obama si reca in Etiopia, preceduto di pochi giorni dal suo zerbino Renzi, per tentare di riallacciare e rinsaldare i legami tra Addis Abeba e l’Occidente. Il timore è che i BRICS, già forti anche nella fedelissima Etiopia, possano col tempo scalzare la pur forte influenza nordamericana sottraendole un paese chiave per il controllo dell’Africa, insieme ovviamente ad altri. E se le cose vanno davvero così, allora a Washington e a Bruxelles ci si può tranquillamente dimenticare di recuperare all’Occidente il Corno d’Africa. La Somalia troverebbe nuova stabilità in una forma di governo sgradita agli Stati Uniti e l’Eritrea non vedrebbe mai quel “regime change” per il quale si lavora in maniera indefessa fin dalla sua indipendenza.
La visita di Renzi e di Obama potrebbe aprire una nuova stagione di conflitti sia politici che militari nel Corno d’Africa che, non dimentichiamoci, è a pochi passi da uno Yemen anch’esso ormai definitivamente perduto dall’Occidente e caduto nelle mani degli Houti, ovvero dell’Iran e quindi anche di Russia e Cina. Non solo il Corno d’Africa, regione importantissima, ma tutto il Mar Rosso in prospettiva rischia di cadere in mani altrui, con conseguenze nefaste per le strategie di predominio dell’Occidente. La guerra, volta non a recuperare tali regioni, cosa impossibile, ma quantomeno a precipitarle nel caos e quindi ad impedirne la conquista da parte di altri, sembra a questo punto una soluzione ragionevole per Obama e i suoi famigli.
Viene allora da chiedersi se davvero esista una politica occidentale per l’Africa, al di fuori di quella di fomentare il caos, che è una “non politica”. I BRICS costruiscono, offrono prestiti con crediti più agevoli rispetto a quelli degli istituti finanziari occidentali, ed in questo modo si creano anche una reputazione favorevole presso le popolazioni africane. L’Occidente, che si tratti delle vecchie potenze coloniali come l’Inghilterra o la Francia o di quelle neocolonialiste come gli Stati Uniti, invece punta solo a distruggere e a boicottare. Si pensi anche alla lunga sequela di sanzioni di cui è stata oggetto l’Eritrea.
Questa non è politica ma giocare in rimessa. Facendo così l’Occidente non conquista nulla, ma si limita solo ad avvelenare i pozzi a cui dovrebbero attingere l’acqua i suoi concorrenti. Una strategia che, però, inquina l’acqua solo per un periodo limitato di tempo, dal momento che poi essa ritorna potabile e quindi, fuor di metafora, le regioni africane che sono state perturbate e precipitate nel caos riconquistano la stabilità e la sovranità dandosi allora con ancor più convinzione agli avversari dell’Occidente. Si pensi anche all’Egitto: dopo la breve parentesi dei Fratelli Musulmani, con al Sisi l’avvicinamento ai BRICS è stato ancor più forte ed inequivocabile di quello appena timidamente abbozzato negli ultimissimi scorci della presidenza Mubarak, e che già ad Obama faceva tantissima paura.
In tutto questo quadro pesa negativamente l’assenza del nostro paese, che almeno nei confronti delle sue ex colonie dovrebbe farsi sentire e farsi vedere con iniziative non certo analoghe a quelle di Francia ed Inghilterra, ma tendenti semmai ad onorare l’antico debito morale e materiale posto dal colonialismo: per esempio perorando presso i propri alleati la causa di paesi come l’Eritrea, che esigono dalla comunità internazionale maggior comprensione, o richiamando l’attenzione sulla grave situazione in Somalia e proponendo e ricercando soluzioni credibili per una sua soluzione. Per non parlare della Libia, dove ci sono ben due governi più numerose fazioni indipendenti a contrastarsi anche militarmente fra loro, e dove il nostro paese potrebbe e dovrebbe intervenire diplomaticamente, ad esempio invocando o quantomeno proponendo una tavola rotonda a cui partecipino tutte le parti, nessuna esclusa; non è detto che l’iniziativa possa avere successo, anzi, è ben probabile che non lo abbia proprio, ma almeno prima bisognerebbe provarci. E invece niente: se non giungono ordini da oltre Oceano, a Roma non si fa niente.
Non c’è una politica italiana per l’Africa ed il Medio Oriente, e non ce n’è neanche una occidentale. Non c’è proprio nulla. C’è solo un deserto della politica, un vuoto pneumatico che qualcun altro avrà buon gioco a riempire con le proprie azioni e le proprie idee, non perché sia cattivo ma semplicemente perché costui, a differenza nostra, ha capito che il suo futuro è inevitabilmente ed innegabilmente legato anche all’Africa. Siamo noi i fessi che non l’hanno ancora capito, o che, di fronte alla perdita dell’Africa, facciamo finta di essercene dimenticati.