Le foto del ragazzino di Mugnano, provincia di Napoli, malmenato da tre suoi coetanei hanno superato quota 250.000 condivisioni: un numero da vera e propria ”webstar”. Il padre, per averle pubblicate, ha ricevuto molti plausi e più di qualche critica.

Le contestazioni che ha ricevuto sono di due ordini: la presunta ricerca della notorietà da una parte; la scarsa efficacia delle sua scelta nell’ottica di contrastare il femoneno dall’altra.

Chiunque pubblichi sulla rete un contenuto che riceva un grande numero di ”like” e di ”view”, ovvero di apprezzamenti e di visualizzazioni, può essere tacciato di esibizionismo, difficile comprendere però se si possa mettere sullo stesso piano, per fare un esempio facile, ragazze che postano foto che non lasciano troppo spazio all’immaginazione e un papà che pubblica foto che testimoniano la sofferenza del proprio figlio.

Se nella decisione del padre può aver pesato l’esibizionismo può saperlo soltanto lui o chi lo conosce molto bene, noi ci asteniamo dal giudizio. Di certo le sue parole sulla necessità di combattere la piaga del bullismo ed insegnare ai nostri ragazzi a ripudiare la violenza sono del tutto condivisibili. D’altra parte sull’utilità di pubblicare tali immagini si può nutrire più di qualche dubbio.

Dal punto di vista della terminologia scientifica è dubbio che il fatto verificatosi si possa etichettare come ‘bullismo’: non si dovrebbe utilizzare tale definizione di fronte a dei singoli episodi di violenza, poiché essa si riferisce a delle relazioni di potere severamente asimmetriche che, cronicizzandosi, creino dei ruoli definiti: il ‘bullo’, per l’appunto, che perpetra le violenze in maniera sistematica, e la vittima che le altrettanto sistematicamente le subisce.

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Nel caso in questione sembra che gli aggressori abbiano fermato la vittima, che non li conosceva, con un pretesto: si tratterebbe allora di una vile aggressione (tre contro uno), non però di un caso di bullismo.

Dal punto di vista morale tale distinzione, sia ben chiaro, non dice nulla, seppure esse sia importante in un’ottica di studio. Anche nella letteratura scientifica, comunque, si riscontrano delle imprecisioni: spesso differenti autori utilizzano definizioni diverse, non condivise, creando così confusioni tra il bullismo e le altre forme di comportamento aggressivo e ciò, com’è ovvio, nega ai risultati delle varie ricerche la possibilità di essere generalizzabili.

Secondo la definizione classica, proposta già negli anni settanta dal pioniere degli studi sul fenomeno, lo psicologo scolastico norvegese Dan Olweus si può parlare di bullismo quando la vittima è esposta a vessazioni ripetute nel corso del tempo, messe in atto da parte di uno o più aggressori le cui azioni nei suoi confronti sono programmate.

Fenomeni paragonabili sono riscontrabili in ognuna delle situazioni caratterizzate da obbligatorietà relazionale, dove il singolo individuo non può decidere semplicemente di andarsene, come in famiglia, a scuola, sul posto di lavoro, in carcere, in riformatorio, in caserma, in ospedale, casa di riposo e così via. Il pericolo insito in questi ambienti sta nel fatto che chi entra nel ruolo della vittima rischia poi di non potervisi più sottrarre.

Proprio il discorso inerente ai ruoli ci fa dubitare dell’utilità dell’esposizione massiccia delle foto del ragazzino picchiato: chi ha una tendenza a maltrattare i più deboli di lui non chiede di meglio che gli si indichino le potenziali vittime.

Da un altro lato, è nostro timore che quelle immagini facciano indignare la maggioranza delle persone, ovvero tutti coloro che mai farebbero qualcosa di simile, ma provochino un certo malsano orgoglio negli aggressori, tanto che spesso accade che siano proprio questi a filmare i maltrattamenti che infliggono e, talvolta, perfino a pubblicarli, dimostrando che per loro rafforzare una reputazione da cattivi è ancora più importante che evitare di essere smascherati.