Un’agenzia Reuters del 17 gennaio 2019 riporta che l’Etiopia ha approvato giovedì scorso una legge che concede a quasi un milione di rifugiati il diritto di lavorare e vivere fuori dai campi profughi, in una mossa elogiata dai più proprio per aver fornito ad essi più dignità e riducendo la dipendenza dagli aiuti stranieri, problema atavico del paese da tempi remoti.
La seconda più grande popolazione di rifugiati in Africa dopo l’Uganda, quella dell’Etiopia, ospita oltre 900.000 persone che sono fuggite da conflitti, siccità e persecuzioni nei paesi vicini come il Sud Sudan, il Sudan, la Somalia e così via. Questi rifugiati – molti dei quali hanno cercato rifugio decenni fa e hanno figli nati in Etiopia – sono in gran parte confinati in uno dei circa 20 campi in tutto il paese. La maggior parte di loro non aveva fino ad oggi il permesso di lavorare.
Non tutti sanno che la maggior parte dei 25 milioni di rifugiati nel mondo sono ospitati nei paesi in via di sviluppo, nei campi profughi in cui la carenza di fondi spesso li lascia a corto di cibo e istruzione, togliendo loro la dignità di esseri umani. E molti di questi profughi sono ospitati da paesi africani, tra cui rientrano in particolare l’Uganda (che ospita mezzo milioni di sudanesi) e l’Etiopia. La nuova legge etiopica è in linea con l’impegno nei confronti del Global Compact on Refugees delle Nazioni Unite, adottato dai leader mondiali a dicembre per aumentare l’autosufficienza dei rifugiati e alleviare la pressione sulle nazioni.
In Italia si preferisce invece continuare a fare del populismo. Salvo poi sfruttare biecamente i profughi col caporalato, costringendo le vittime di queste migrazioni, dopo aver affrontato terribili viaggi terrestri e marini a rischio della vita ed aver resistito alle torture delle galere libiche,a subire forma di sfruttamento disumano, a vivere nelle baracche più indegne, senza servizi igienici e sanitari. Oppure, se ne fa materia di business per cooperative ed associazioni che, guadagnandoci per mantenerli in strutture fatiscenti, si danno pure arie di umanità e definiscono razzisti chiunque li critichi.
La legge etiopica consente ai rifugiati di uscire dai campi, frequentare scuole regolari e viaggiare e lavorare in tutto il paese. I rifugiati possono registrare formalmente nascite, matrimoni e decessi e avranno accesso anche ai servizi finanziari come i conti bancari. Il capo della Commissione per gli investimenti etiopici Fitsum Arega ha detto che la nuova legislazione fa parte del “Jobs Compact” del paese – un programma da 500 milioni di dollari che mira a creare 100mila posti di lavoro – il 30 per cento dei quali sarà assegnato ai rifugiati, e così sostenere efficacemente il programma d’industrializzazione dell’Etiopia.
Gli operatori umanitari, nel commentare la notizia d’agenzia, hanno subito detto che questa coraggiosa decisione dell’Etiopia servirà da esempio in un mondo in cui, in alcune regioni, i diritti e le libertà dei rifugiati e dei migranti vengono progressivamente erosi e a volte platealmente negati. Mentre alcuni paesi occidentali (come l’Italia) continuano ad adottare politiche spesso incongrue, anche davanti ad emergenze umanitarie clamorose, l’Etiopia sta andando nella direzione opposta. Permetterà a più rifugiati di vivere in aree urbane, garantirà permessi di lavoro limitati, darà accesso ai terreni agricoli e aumenterà l’iscrizione scolastica per i bambini rifugiati. Ma in tutta questa positività resta comunque un aspetto da non sottovalutare: la rivoluzione etiopica prosegue ma rischia d’influenzare i delicati equilibri interni dell’Eritrea, che dopo la fine dell’embargo dell’ONU ha cominciato velocemente ad attuare le riforme necessarie a non attirare una quota dei suoi cittadini al di là del Mareb, verso la sorella Etiopia, con cui condivide religioni, cultura e lingue.