Francia 2016 – trent’anni dopo, un Europeo ricalcato su Messico’86 per formula e numero di partecipanti (ben 24 squadre: gli esteti storcono il muso, ma è un bel regalo ai tifosi… di nicchia) eppure a suo modo “tradizionale”: profumerà di Interbritannico (unica novità l’Eire al posto della Scozia, vittima proprio dei verdi nel girone di qualificazione) e di Coppa Internazionale anni ’30, con la clamorosa presenza contemporanea di Austria, Ungheria e… “Cecoslovacchia”. Quest’ultima è una notizia sul serio, visti i magrissimi risultati ottenuti, dagli anni ’80 in poi, dai bianchi austriaci e dagli imbolsiti eredi di Ferenc Puskas – i cechi fanno storia a sé, dal momento che si sono mostrati capaci di aggiungere qualche recente alloro al palmarès della defunta Cecoslovacchia.
Merita raccontare il modo in cui le nazionali ex asburgiche sono giunte al traguardo volante, perché una vittoria agli spareggi non è paragonabile a uno sfavillante primo posto. Iniziamo allora dall’Austria, che non fosse stato per le 10 vittorie su 10 gare dell’Inghilterra nel fiacco gruppo E sarebbe la reginetta delle qualificazioni. Nove vittorie e un pareggio, 28 punti, 8 lunghezze di vantaggio sulla Russia e 10 sulla Svezia, qualificate anch’esse: i numeri parlano chiaro, decretano un insperato trionfo in un girone agguerrito. Il gruppo G, come testimoniano i nomi delle avversarie, era tutt’altro che semplice, eppure i bianchi lo hanno stradominato, andando a vincere a Mosca e a seppellire di reti gli svedesi a Stoccolma (4-1). Se andiamo a consultare gli annali, scopriamo un exploit quasi altrettanto eclatante in sede di qualificazione a – guarda caso… – Francia ’98: allora la nazionale di Konsel, Herzog, Vastic e Polster si piazzò prima davanti a Scozia e ancora Svezia, ma poi le cose andarono maluccio, e sarebbero andate peggio senza due jolly pescati a tempo scaduto. L’impressione però è che questa selezione, multietnica ma non troppo, sia assai più forte di quella di due decenni fa: a dircelo non è tanto la 15esima posizione nel ranking FIFA, che ha fruttato un posto tra le vice-teste di serie, quanto la qualità dei giocatori e i risultati incoraggianti delle nazionali minori (U21, U19 e U17), prova di una crescita del movimento complessivo.
I giocatori dunque: su tutti brilla l’astro di David Alaba, 23enne colonna del Bayern Monaco che sa interpretare tutti i ruoli, compreso quello di bomber: 4 goal sono suoi. Tra gli attaccanti il più talentuoso è senz’altro Marko Arnautović, dello Stoke City, un clone di Ibrahimovic che però segna meno (3 reti nelle qualificazioni), anche perché la sua specialità sono gli assist per il bombardiere “yankee” Janko (7 goal) e, quando capita, per l’affidabile Harnik (3, c’era già all’Europeo del 2008) e l’incompreso Okotie (2). Colpisce il dato che tutti i 22 goal sono stati realizzati da attaccanti o mezze punte, tra le quali si segnalano il versatile Junuzovic, bassa statura e tecnica d’altri tempi (2), e la promessa mantenuta Sabitzer (strappato al Rapid dai milioni della Red Bull, che l’ha dirottato mugugnante a Lipsia): se la prima linea è stellare, però, a garantire i pochissimi goal al passivo è stata una difesa di non minore qualità, imperniata sul “tedesco” Prödl e il “russo” Dragovic, protetti a centrocampo dall’ex Austria Vienna Baumgartlinger (ora al Magonza, serie A tedesca). In effetti, è una nazionale, quella austriaca, che pesca poco nella Bundesliga formato mignon: fra i titolari, il solo portiere Almer – peraltro recentemente infortunatosi – gioca in patria, nell’Austria Vienna in testa al torneo. Fra tanti stranieri per modo di dire, ce n’è uno autentico: l’allenatore svizzero Marcel Koller, il cui contratto scadrà a fine campionato europeo, è stato capace di trasformare solisti giramondo in una squadra che, se non è parente del Wunderteam, è senz’altro al livello di quella degli anni ’70-’80.
L’ultima partita giocata nel 2015, l’amichevole con la Svizzera, è stata persa sorprendentemente dai bianchi per 1-2 in casa (un goal annullato): “es ist nicht schlecht einmal zu verlieren” (=non è male perdere una volta), ha commentato saggiamente Koller. Il rischio dell’Überheblichkeit (=superbia, ma anche: arroganza) è infatti reale, dopo un girone sontuoso, ma la sopravvalutazione dei propri mezzi combinata con la scarsa abitudine alle grandi competizioni potrebbe rovinare la festa in riva al Danubio. Meglio perdere qualche match prima e vincerne alcuni durante: l’obiettivo dell’Austria è senz’altro il superamento del primo turno, quel che verrà in più è bene accetto. Domanda secca: quanto vale oggi la nazionale bianca (ormai quasi sempre in rosso, purtroppo)? A parere di chi scrive, tanto quanto l’esaltatissimo Belgio, che ha fatto meno punti in un gruppo più scarso: queste due squadre si candidano a essere le sorprese del torneo.
Sotto un altro punto di vista, una sorpresa è pure l’Ungheria a trazione tedesca: cioè, a sorprendere è il fatto che, dopo un cammino accidentato, sia arrivata in fondo. I magiari erano giunti terzi nel gruppo F dietro Irlanda del Nord (!) e Romania, 4 vittorie 4 pareggi e 2 sconfitte, differenza reti +2: siamo lontanissimi dai numeri dei vicini austriaci, e – a ben guardare – assai più vicini al terzo-quarto posto cui i tricolori si erano abbonati nelle precedenti qualificazioni europee e mondiali. Il meritato successo ai playoff sulla mediocre Norvegia, incongruamente presentata come “superfavorita”, ha scatenato il sincero entusiasmo dei media italiani, che hanno dedicato all’impresa magiara articoloni venati di malinconica simpatia, malgrado l’ampliamento a 24 faccia somigliare questa “resurrezione” a una riesumazione. Penso sia un fatto generazionale: per chi è nato all’inizio degli anni ’70 o prima l’Ungheria era un capitolo della storia del calcio. Abbiamo conosciuto il portiere Gabor Kiraly, simpatico quarantenne in tuta, assai meglio del centrocampista Kleinheisler – ventunenne del Videoton esordiente a Oslo – e di Tamàs Priskin – uno scarto dell’Austria Vienna oggi allo Slovan Bratislava -, autori delle reti decisive; ci è stato ricordato che l’ultima comparsata della nazionale a una fase finale europea risale al 1972 (che, come so bene, non è ieri… arrivò quarta, comunque) e che 14 anni dopo, nel Mundial messicano, lo speranzoso undici guidato da Detari andò incontro a umilianti batoste contro URSS e Francia.
Su scala ridotta, le caratteristiche sono quelle di sempre: tecnica individuale da discreta a buona – negli anni migliori era eccellente: all’epoca dell’Aranycsapat i giocatori erano chiamati “i brasiliani d’Europa” – gioco spigliato ma non velocissimo, scarsa fisicità (ma un paio di attaccanti sono giganteschi). Le “stelle”? Difficili da individuare, il cielo è più nuvoloso che in Austria… con i suoi 36 anni il centrocampista del Ferencvaros Zoltàn Gera è il veterano della squadra (86 presenze e 24 goal, di cui uno decisivo alla Finlandia), assistito a metà campo dal talentuoso Dzsudzsák (75-17, ma in qualificazione manco una rete); per il resto, protagonisti e comprimari cambiano frequentemente, e l’affannosa ricerca di un bomber intrapresa dall’allenatore tedesco Bernd Storck sta dando pochi frutti: il citato Priskin (52-16) è ancora il migliore di un reparto formato da trentenni. Il confronto con la “cugina” Austria è impietoso, e solo i romantici possono ritenere un’ottima notizia il fatto che ben 15 dei 27 giocatori impegnati nelle qualificazioni militino nel modestissimo campionato interno: malgrado i suoi 5 nazionali (Denes, il brasiliano naturalizzato de Almeida, Gera, Nagy e l’attaccante Böde), il glorioso Ferencvàros recita la parte discreta della comparsa nei preliminari estivi di Europa League.
Quale Europeo pronosticare ai magiari, per i quali – confesso – ho sempre avuto un debole (l’irascibile Lajos Detari dal lancio perfetto era il mio idolo d’infanzia)? Sono stati inseriti in terza fascia come le forti Cechia e Polonia, ed è un omaggio al passato; sulla carta, però, sono fra le cenerentole. Mi auguro che vengano presi sottogamba, e combinino qualche scherzo da prete a presunte “grandi”: hanno, in fondo, l’inestimabile vantaggio di non aver nulla da perdere e tutto da guadagnare (gratitudine del Presidente-tifoso Viktor Orbàn compresa).
Delle tre grandi equipe danubiane, la Cecoslovacchia è sempre stata la meno appariscente, ma anche – indiscutibilmente – la più costante: pur senza annoverare tra le loro fila semidei come Papierkorbe Sindelar o Ferenc Puskas (ma Masopust e poi Nedved si sono meritati il pallone d’oro), i cechi sono giunti due volte secondi a un Mondiale, nel ’34 e nel ’62, e a differenza dei rivali hanno portato a casa persino un Campionato europeo – era il ’76, e il “cucchiaio” di Panenka su rigore è ancora un imitatissimo cult. La c.d. Rivoluzione di velluto, che spezzò in due il Paese all’alba degli anni ’90, sarebbe bastata a scusare un ridimensionamento calcistico che, però, non c’è stato. Rettifico: da quando esiste, l’erede diretta si è qualificata per un unico mondiale (quello di Germania, dove non lasciò traccia), ma agli Europei la musica è stabilmente diversa. La Repubblica Ceca, infatti, non si è persa un’edizione della fase finale del ’96, conquistando un secondo e un terzo posto (con la squadra migliore di sempre: fu una traversa in semifinale a negarle l’alloro, nell’anno del miracolo greco!). Quattro anni fa una squadra senza assi approdò ai quarti: quella attuale potrebbe fare anche meglio (e poi deludere malamente i tifosi alle prossime qualificazioni mondiali: le consuetudini si rispettano). Il Gruppo A, in cui il sorteggio l’aveva inserita, pareva proibitivo o quasi: dietro lo squadrone olandese, protagonista fino all’epilogo delle ultime competizioni iridate, scalpitava la forte Turchia. Terzo posto? Meglio il primo (22 punti, frutto di 7 vittorie, un pareggio e due ininfluenti sconfitte), specie se impreziosito da due successi sugli Orange, clamorosamente relegati al quarto posto e dunque fuori dalla competizione. Come giocano i cechi? “Come il Milan (di Sacchi), ma da fermi”: la definizione che, un quarto di secolo fa, un commentatore diede dello Sparta Praga si attaglia perfettamente agli odierni portabandiera del calcio boemo. Piedi buoni, sagacia tattica, una rete di passaggi che lascia spazio, talvolta, a una saetta dalla distanza – e soprattutto esperienza da vendere. Unico neo: l’età media della selezione che andrà in Francia è piuttosto alta, e “Mozart” Rosický, a 35 anni, è ormai il fantasma dell’asso che avrebbe potuto essere se il destino non gli avesse regalato più infortuni che partite giocate. Chi ha segnato allora i non pochi goal (19) che hanno permesso ai cechi di superare al fotofinish la stupefacente Islanda? Semplicemente la squadra: in 10 gare sono andati a segno 11 giocatori, e il bottino più ricco (4) se l’è accaparrato tale Bořek Dočkal, 27enne centrocampista difensivo dello Sparta Praga. Lo storico club della capitale ha fornito alla nazionale 6 calciatori nel biennio (2 in meno del Viktoria Plžen, recente vittima del Rapid in Europa League): tra loro c’è anche David Lafata, punta efficacissima a dispetto delle 34 primavere. Tanti “autoctoni”, dunque (gli “stranieri” sono 18 su una rosa allargata di 45 giocatori), ma la qualità non ne risente granché: la lega ceca, a differenza di quella ungherese, è una cosa abbastanza seria. Tra i non moltissimi giovani, il più promettente è Pavel Kadeřábek, un difensore dell’Hoffenheim col vizio di segnare.
Un gran collettivo, dunque, che forse per ragioni di marketing non è finito tra le vice teste serie, e fino al giorno del sorteggio farà compagnia, tra le “medie”, ai cuginetti della Slovacchia. Costoro di star ne hanno parecchie, soprattutto a metà campo: il ventottenne Hamšik è senz’altro il protagonista più atteso, ma Vladimìr Weiss (26 anni, va a caccia di petrodollari in Qatar), e Kucka non sono da meno. In attacco ammireremo il biondo Adam Nemec. Buonissimi giocatori, ed evidentemente anche un buon complesso, visto che la Slovacchia ha superato la Spagna all’esordio: d’altra parte, che questi “figliastri” della Cecoslovacchia (storicamente costruita intorno al blocco ceco) sappiano giocare al calcio lo scoprì, a sua spese, l’impresentabile Italia africana di Lippi. Cosa combineranno i nostri eroi in Francia? Intanto, al pari dell’Ungheria, saranno paghi di esserci: le aspettative nei loro confronti non sono eccessive, anche se qualche buon risultato in amichevole (hanno piegato la rognosa Svizzera) induce all’ottimismo.
Cos’altro aggiungere? Solo un’irrilevante considerazione personale: la prospettiva di rivedere a una fase finale Austria, Ungheria e “Cecoslovacchia” mi fa già sentire – prodigi dello sport, e della memoria! – un tantino più giovane…
Norberto Fragiacomo