Chi ha buona memoria, si ricorda i primi anni in cui Facebook ha attecchito sul tessuto sociale di ogni Paese. Dal 2010 in poi, in Italia è stato un continuo martellamento mediatico su un tema che sino ad allora non era fra le priorità della popolazione, già alle prese, fra l’altro, con una crisi economica che ancora oggi viene addolcita e sostanzialmente negata o aggravata nei termini a seconda del momento e dell’interesse.

Tuttavia, ogni giornale, ogni TG cercava di convincerci che Facebook (sino ad allora solo uno dei tanti curiosi nomi anglofoni usati nel settore) fosse la nuova frontiera sociale, politica ed economica verso la quale muoversi. Milioni di persone venivano spinte silentemente, spinte da una grancassa mediatica inusuale, dall’ interazione fisica a quella virtuale (con tutte le conseguenze del caso), senza che ce ne fosse, tutto sommato, una vera esigenza. Ma l’ “hype” era ormai inarrestabile. E nel giro di pochi anni, avere un account Facebook divenne quasi obbligatorio per migliorare o ampliare le proprie interazioni sociali.

A questo proposito è bene riassumere brevemente la storia di Facebook. Creato da un allora ventenne Zuckerberg nel 2004, e limitato solo alla popolazione studentesca di Harvard, dopo appena un anno ricevette un colossale finanziamento (oltre 12 milioni di dollari) dalla Accel Partners, il cui manager James Breyer era stato precedentemente socio di Gilman Louie, CEO della Q-Tel, una non-profit direttamente collegata alla fornitura di servizi per la CIA. Da allora la crescita del social network di Zuckerberg è stata inarrestabile.

Ciò non vuol dire che Facebook sia nata per espressa volontà politica, ma sicuramente c’è stato un interesse politico che ne ha favorito, in modo diretto o indiretto, la crescita. Occorre sempre chiedersi “cui prodest”. Cosa c’è di meglio, per una società di intelligence, di un servizio online in cui sono i cittadini a fornire volontariamente informazioni su se stessi? E con il quale è possibile influenzare a piacimento tendenze e opinioni, nonchè persino “creare” rivoluzioni sulla carta, anzi, sullo schermo?

Questa “autoschedatura volontaria” di massa è stata il primo passo di un processo di sorveglianza a 360 gradi di cui vedremo, nei prossimi anni, le tappe più estreme. Noi abbiamo dato l’assenso e noi ne facciamo parte, a meno di non vivere su di un eremo.

Ma da un pò di tempo, per Facebook, non tutto sembra funzionare come dovrebbe. Tralasciamo le ragioni squisitamente di mercato (ma non solo), come il passaggio a Instagram da parte delle generazioni più giovani, per concentrarci su quelle politiche. Infatti, le aree di potere opposte alle forze di matrice globalista hanno imparato la lezione, e paradossalmente si servono proprio di Facebook per contrastarle, secondo il vecchio e ben comune adagio “chi di spada ferisce”.

Dalle “rivoluzioni colorate” gradite e caldeggiate dal blocco euroatlantico, Facebook è diventato terreno neutro dove trovano posto anche istanze parzialmente o totalmente contrarie ad esso o alle entità sovranazionali collegate. Di conseguenza, Zuckerberg si è venuto a trovare in una posizione assolutamente non invidiabile.

Da una parte, deve tutelare i suoi guadagni e garantire giocoforza un certo livello di libertà proprio per non perdere gli immensi introiti derivanti dalla raccolta dati di massa. Dall’altra, viene attaccato da coloro (spesso ex alleati) che gli rimproverano di non usare il pugno di ferro contro la propaganda antiglobalista. Esemplari sono le iniziative “antidisinformazione” e “antibufala” tanto di moda oggi, attuate da enti o soggetti ricondicibili, per esempio, alla Open Society di George Soros, uno dei più accaniti detrattori di Zuckerberg.

In questo contesto si inquadrano i continui attacchi a Facebook degli ultimi tempi (in primis il caso di Cambdridge Analytica, ampiamente pubblicizzato sui media mainstream pur non essendo certo un argomento di interesse di massa), quasi sempre provenienti proprio di quella matrice progressista/globalista che ha consentito a Facebook di diventare una vera miniera per il data mining geopolitico, e che ora non gli perdona il suo tenere i piedi in due scarpe. In questo senso, le contraddizioni dei fautori della cosiddetta “società aperta” sono destinate solo ad aumentare col tempo.

Filippo Redarguiti